Ventinove anni fa ci lasciava Ayrton Senna, mito dal quale resta impossibile scindere lo sport che amiamo. Così come amavamo Magic e così come continueremo a fare per sempre: perché, se è vero che nessuno muore realmente finché vive nel cuore di chi resta, faremo in modo che la luce di Ayrton continui ad illuminare da lassù i nostri ricordi per tutta la vita.
“L’Antico Testamento racconta l’ira del Dio degli ebrei quando il suo popolo non riconosceva i segni e i messaggi dell’Onnipotente. A noi della Formula 1 capitò la stessa cosa: quel sabato, davanti all’oscenità della morte di Roland, perché la morte è sempre oscena, voltammo la testa dall’altra parte. La punizione arrivò inesorabile”.
Non basterebbero mille di questi parallelismi di stampo religioso partoriti da Leo Turrini nella testimonianza dell’intima amicizia che, dal 1990 in poi, lo vide legato ad Ayrton Senna per raccontare a chi non ha potuto viverla sulla propria pelle l’esperienza metafisica legata indissolubilmente alla personalità del brasiliano.

Ma sono proprio le maledette coincidenze astrali, che, puntuali come una tassa da pagare, ci ricordano che l’equilibrio agognato a cui tendiamo, anche e soprattutto tentando di negare le evidenze, è fragile in egual misura rispetto al filo che ci tiene legati a questa vita: ed è così che il fine settimana di Imola del 1994 si presenta agli occhi di tutti, a 29 anni di distanza, come un’escalation di sincronismi difficile da digerire, poiché l’uno monito dell’altro.
Il crescendo di circostanze fortuite che nella giornata di venerdì 29 Aprile aveva visto un miracolato Rubens Barrichello abbandonare l’abitacolo della sua Jordan (disintegrata dall’uscita di pista alla Variante Bassa) raggiunge quello che erroneamente era stato individuato come l’apice del nefasto con la morte di Roland Ratzenberger, appena ventiquattro ore dopo la tragedia sfiorata da Rubinho.

Di fronte all’immagine del casco dell’alfiere austriaco penzolante sul fianco di una giovane e sciagurata Simtek, Ayrton comincia, forse per la prima volta, ad avere paura: è l’umano timore, infatti, a prevaricare nell’accennata confessione fatta a Sid Watkins (medico ufficiale del paddock per quasi tre decenni) la sera del 30 Aprile. Sarà lo stesso neurologo inglese a tentare di persuaderlo dallo scendere in pista il giorno seguente, come raccontato nell’autobiografia del sanitario, ma per chi conosce Magic sa bene che smettere di correre equivarrebbe a smettere di vivere.

La conferma della dipartita di Senna da un mondo che, probabilmente, non ha mai tentato di comprenderlo fino in fondo quando ancora il suo mito ne faceva parte, arriva alle 18:40 di una domenica di gara che, nel nome del decantato spettacolo da cui sembra ancora non poter prescindere, si protrae nel pomeriggio all’oscuro dello spegnimento della stella di Ayrton, la quale, nel frattempo, si stava consumando a 50 chilometri dall’autodromo in una sterile stanza dell’Ospedale Maggiore di Bologna.
A tradire il suo padrone si è rivelata, poi, essere quell’attenzione al dettaglio che ha fatto di lui un tre volte Campione del Mondo: quando giovedì 28 Aprile i meccanici della Williams accontentano il fuoriclasse di San Paolo accorciando il pistone dello sterzo non sanno che stanno firmando virtualmente la sua condanna a morte.

Il processo che ne segue, tuttavia, è mera prassi giuridica, perché l’eroe nazionale verdeoro ha perso la vita affidandosi a ciò che la vita gliel’aveva resa tale. Per questo, non abbiamo dubbi sul fatto che lo spirito ribelle ma genuino di Senna stia ancora correndo veloce per la sua strada, affiancato, chissà, da Lucio Dalla, che a competere con quel qualcosa di più grande a cui faceva affidamento costantemente lo aveva già disegnato nel 1996.
Ci manchi sempre Ayrton, ci manchi tanto. Ma oggi un po’ di più.
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