Osservare una Ferrari tagliare per prima il traguardo di Le Mans ha restituito al nostro animo l’idea di un cosmo ordinato, di un destino necessario, ineluttabile, eppure così straordinario nel suo accadere. Non vi è altro orizzonte, oltre la vittoria, in cui di istinto pensiamo al posto del Cavallino Rampante nel mondo. Il destino va tuttavia saputo conquistare come una meta, prima di celebrarne l’appartenenza. Potrà la luce di questa festa attesa da 58 anni propagarsi e fendere l’ombra in cui naviga la Rossa in Formula 1?

Tifare Fer­rari sig­nifi­ca abitare un para­dos­so. Il sipario lev­a­to del­la moder­nità ha strap­pa­to l’uomo da mon­di in cui preg­no di sen­so il des­ti­no cola­va nat­u­ral­mente sug­li affari umani, con­seg­nan­do questi alla neces­sità di ricer­car­lo, il sen­so, di pro­dur­lo tramite l’attività del pro­prio spir­i­to. Nes­sun fir­ma­men­to avrebbe più trova­to rif­lesso imme­di­a­to sui sen­tieri dei mor­tali, le vie di questi — di noi — avreb­bero dovu­to smar­care l’insensatezza del­la nos­tra con­dizione ter­re­na con la costruzione. E tut­tavia, tifare per la Fer­rari situa la nos­tra ani­ma al con­fine, para­dos­sale, tra mon­di stori­ci dif­fer­en­ti: il mon­do del sen­so nat­u­rale ed il mon­do del sen­so da costruire.

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L’immagine di una Fer­rari pri­ma al tra­guar­do, come quel­la con­tem­pla­ta al ter­mine del­la cen­tes­i­ma edi­zione del­la stor­i­ca 24 Ore di Le Mans, resti­tu­isce al nos­tro ani­mo l’idea di un accadere intrin­se­ca­mente ric­co di sen­so, com­pi­u­to nel­la sua total­ità. Ci si attende, sem­pre, una Rossa attra­ver­sare con stra­da lib­era dinanzi a sé i nas­tri d’asfalto ada­giati sul­la Ter­ra. Si pen­sa: non vi è altro oriz­zonte in cui tale macchi­na pos­sa trovare pos­to nel mon­do. E quel pos­to è come garan­ti­to da un des­ti­no pre­scrit­to, inelut­ta­bile, al pari di quelle sor­ti che in epoche lon­tane con­ferivano for­ma al vivere, ordi­nan­do il mon­do cir­costante con la nat­u­ralez­za a cui accen­nava­mo. Anche a dis­tan­za di 58 anni la fer­ma sicurez­za del­la nos­tra fede non vacilla.

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Eppure lo stes­so accadere, con­sid­er­a­to, nel nos­tro inti­mo, così insp­ie­ga­bil­mente cer­to, pre­vis­to dal gius­to ordine delle cose, per­pet­ua in noi le ragioni del­lo scon­cer­to. Il Cav­alli­no Ram­pante sul­la tes­ta del mon­do è un mira­co­lo, scon­volge sem­pre di nuo­vo la nos­tra sal­da atte­sa nel momen­to del suo invera­men­to, nonos­tante la sua ripe­tizione. Ci tro­vi­amo nel­la para­dos­sale con­dizione in cui lo stra­or­di­nario, il sen­so nat­u­rale da cui siamo sta­ti abban­do­nati, si posa sull’ordinario, ossia quel sen­so man­cante e quin­di sem­pre da costru­ire cui siamo sta­ti con­seg­nati. Una sin­te­si antitet­i­ca riu­nisce gli ele­men­ti in gio­co quan­do a tri­on­fare è la Scud­e­ria di Maranello.

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Una riu­nione, quel­la tra sen­so nat­u­rale e mon­do mod­er­no, cui è impos­si­bile ambire nei ter­mi­ni di una sper­an­za pas­si­va. Sep­pur car­i­ca di sen­so imma­nente alla tradizione, la glo­riosa vicen­da transalpina del Cav­alli­no trae orig­ine da un’attività di “organ­i­ca costruzione”, dove la vin­cente armo­nia fra le par­ti in gio­co non è giun­ta dall’alto come una salvez­za pre-annun­ci­a­ta, ma ricer­ca­ta con cura. Osser­va­to da ques­ta prospet­ti­va il cos­mo Fer­rari vive di una scis­sione auto­ev­i­dente tra il repar­to GT, cap­i­tana­to da Antonel­lo Col­let­ta, e l’ala del Repar­to Corse lega­ta al prog­et­to For­mu­la 1. Se da un lato abbi­amo infat­ti potu­to gioire dei frut­ti di una vir­tu­osa attiv­ità, dall’altro con­tinuiamo a reg­is­trare una cupa nav­igazione a vista, anco­ra trop­po irreti­ta nelle neb­bie del­la frammentazione.

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Ma co-rispon­dere al pro­prio des­ti­no, per noi abi­tan­ti di un tem­po abban­do­na­to dal­la nat­u­rale gui­da degli dèi, impli­ca il bisog­no di sper­an­za atti­va, vale a dire credere e agire sec­on­do un des­ti­no con­fig­u­ra­to come rag­giung­i­men­to d’una meta in prin­ci­pio nega­ta – e solo poi come pre­vis­to com­pi­men­to d’un par­ti­co­lare dis­eg­no. Ger­mogli di tale for­ma di sper­an­za ci sono sem­brati fiorire tra i ver­ti­ci ammin­is­tra­tivi e sportivi di Fer­rari, da John Elkann a Fred­er­ic Vasseur a Charles Leclerc, nel sostenere come un cor­po uni­co l’avventura di Anto­nio Giov­inazzi, Alessan­dro Pier Gui­di e James Cal­a­do. Ancor pri­ma del­la cel­e­brazione d’un tri­on­fo il carat­tere fon­da­men­tale di questo fes­toso even­to dovrebbe ess­er quel­lo dell’investitura d’un com­pi­to: costru­ire con cura le fon­da­men­ta su cui accogliere il pro­prio destino.

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Vin­cere nei luoghi sac­ri del­la sto­ria, quan­do una sto­ria neces­si­ta di venir risoll­e­va­ta, ci offre forse l’occasione di cogliere un cen­no. La fes­ta, infat­ti, quan­do aut­en­ti­ca, non è mera occa­sione di sfre­natez­za, la par­ente­si effimera di un cor­so che riprende uguale a come si era inter­rot­to, sen­za las­ciar seg­no. La fes­ta seg­na i cal­en­dari, strut­tura il tem­po dei nos­tri giorni, è por­ta­trice di luce nuo­va. Quel­la luce che spe­ri­amo pos­sa propa­gar­si ed affettare le trop­po dura­ture ombre patite dal­la Rossa in For­mu­la 1. D’altronde tifare sig­nifi­ca questo: sper­are sem­pre, anche nei momen­ti più bui, che qual­cosa di bel­lo pos­sa accadere.

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