Francois Cevert, Dutch GP Zandvoort 1970

Il 6 Ottobre del 1973 ci lasciava François Cevert, la cui morte, circondata da un alone di mistero, viene considerata tra le più tragiche della storia della Formula 1. La sua vita, invece, fu indubbiamente affascinante: pilota di talento dagli occhi blu, pianista di cultura e amante straordinario. Chiedere a Brigitte Bardot.

“Guar­da! Guar­da! Guar­da che spet­ta­co­lo! Ma hai vis­to quan­to è verde il mare?”

Era una notte d’es­tate, di quelle che il ven­to ti coglie alla sprovvista cer­can­do di sof­fi­are via la luna piena e le stelle tutte. Chissà per quale mira­co­lo del­la natu­ra, però, gli astri resistono al “garbino” così si chia­ma dalle mie par­ti il libec­cio che spi­ra da sud-ovest. Ma il mare ne risente, si intor­bidisce, e la luce del faro che sor­mon­ta il por­to lo resti­tu­isce ai nos­tri occhi di un verde tiepi­do, che spaz­za via il blu not­turno ogni qual vol­ta il ven­to spinge con vio­len­za l’ac­qua sug­li scogli.

Ci sedi­amo, abbrac­ciati, in atte­sa che Eolo, Dio dei ven­ti, plachi la sua ira e ci per­me­t­ta di fumare una sigaret­ta in pace, sen­za che il garbino la aspiri per noi. Mi con­sola­vo spo­stan­do i capel­li bion­di di lei, che sem­bra­vano vivere di vita pro­pria e cela­vano a me quegli occhi pro­fon­di nel quale vole­vo affog­a­re, come a cer­care un ris­arci­men­to per quel blu del mare rapi­to dal ven­to. Adesso è autun­no, la cam­i­cia va bene di giorno ma la sera fa venire la pelle d’o­ca. Un paio di giri di spritz non bas­tano a trat­tanere il calore cor­poreo, ma muovono i ricor­di e la mente. Ripen­so a quel­la sera, ai suoi occhi cas­tani e a quel­la chioma bion­da che muove­va imperterrita.

Sem­bra­va Brigitte Bar­dot, la pri­ma, quel­la de “La ragaz­za del pec­ca­to” e “Fem­mi­na”. Pec­ca­to solo che man­casse il blu del mare a fare da sfon­do, pen­so. Men­tre sorseg­gio una bir­ra sedu­to sul divano, le sinap­si del mio cervel­lo lavo­ra­no alacre­mente, con­tro ogni pronos­ti­co, ed iniziano a col­le­gare i puntini.

Blu e Brigitte Bar­dot, blu e Brigitte Bardot…

Un lam­po, un’im­mag­ine, niti­da come una fotografia stam­pa­ta in alta risoluzione, inon­da la mente e si staglia vivi­da davan­ti ai miei occhi. C’è un uomo, con il cas­co in tes­ta e la visiera alza­ta, ma il sot­to­cas­co las­cia scop­er­ti solo gli occhi, come un niqab ma sen­za reli­gione, ele­va­to a pro­tezione di un Dio poco van­i­toso ma spi­eta­to come Her­mes, dio del­la veloc­ità tan­to sub­do­lo e vigli­ac­co che, sec­on­do la mitolo­gia gre­ca, era sia por­ta­tore dei sog­ni che con­dut­tore delle ani­me dei mor­ti negli inferi.

L’uo­mo in ques­tione è cir­conda­to di Blu. Blu era la macchi­na all’in­ter­no del quale era cala­to, blu era il suo cas­co. Blu era­no, soprat­tut­to, i suoi occhi.

Si chia­ma­va François Cevert.

Lui, Brigitte Bar­dot, l’ha conosci­u­ta davvero. Sec­on­do alcu­ni gior­nali scan­dal­is­ti­ci del­l’e­poca la loro era più di una conoscen­za, era un fre­quen­tazione, di quelle che spes­so si vedono tra una sex sym­bol affer­ma­ta e chi ha tutte le carte in rego­la per diven­tar­lo in breve tem­po. François era un ragaz­zo di bel­l’aspet­to, fas­ci­noso, intri­g­ante, ric­co e colto. Era un pilota. Nel tem­po libero, gira­va l’Eu­ropa a bor­do del suo Piper e muove­va le sue dita decise sui tasti del pianoforte, oltre a fare strage di cuori tra le donne più belle che il mon­do gli ponesse dinanzi, stre­gan­dole con il suo sor­riso lucente e i suoi occhi blu, del­lo stes­so col­ore del mare all’al­ba, quan­do il ven­to va a dormire e las­cia spazio al sole che accarez­za il mare con la sua luce, facen­done bril­lare ogni del­i­ca­ta increspatura.

Ma ogni blu è diver­so dal­l’al­tro, per­ché il blu è un col­ore par­ti­co­lare, che sfu­ma in tonal­ità ed espres­sioni sem­pre diverse, tan­to che Kandin­skij dice­va che “qua­si sen­za eccezioni, il blu si riferisce al dominio dell’astrazione e dell’immaterialità”. Purtrop­po François si ren­derà con­to del­la ver­ità del pen­siero del pit­tore rus­so molto presto, trop­po presto.

Era il 6 Otto­bre del 1973 quan­do il Cir­cus posa le tende sul cir­cuito di Watkins Glen per l’ul­ti­ma gara del­la sta­gione. Stew­art, com­pag­no di squadra, ami­co e padre sporti­vo di Fran­cois Cev­ert, ha già vin­to matem­ati­ca­mente il tito­lo, men­tre il gio­vane francese può anco­ra con­quistare il sec­on­do pos­to por­tan­do a Ken Tyrrell quel­la che sarebbe una stor­i­ca doppietta.

Il 6 Otto­bre, dice­va­mo. Poco pri­ma del­l’inizio del­la ses­sione di qual­i­fi­ca, François sfodera il suo sor­riso migliore e guardan­do Jo Ramirez, suo stori­co capo mec­ca­ni­co, escla­ma: “Oggi è il 6 Otto­bre, il numero del telaio è lo 006, il motore è tar­ga­to 006 e ho il numero 6. È per forza il mio giorno”.

Il blu è un col­ore tan­to stu­pen­do quan­to tra­di­tore. Astrat­to e imma­te­ri­ale sostene­va Kandin­skij, per­ché sono la luce e il con­torno che ne definis­cono l’an­i­ma. Può trasmet­tere qualunque emozione e mutare lo sta­to d’an­i­mo di chi lo osser­va in men che non si dica. Lo sa bene Jack­ie Stewart.

Sir Jack­ie, infat­ti, approc­cia le Ess­es, il trat­to di pista più com­pli­ca­to del cir­cuito, ed è costret­to a ral­lentare per­ché si tro­va cir­conda­to da un mare di detri­ti blu. Era­no di una Tyrrell, non pote­va essere altri­men­ti. Una vol­ta scol­li­na­to, tro­va Chris Amon, per l’oc­ca­sione ter­zo pilota del­la scud­e­ria inglese, in mez­zo alla pista che osser­va scon­so­la­to quel che res­ta di una mono­pos­to accar­toc­cia­ta sul guardrail. Stew­art ral­len­ta, alza il pol­lice in seg­no di ok, qua­si stupi­to che Chris potesse essere usci­to sulle sue gambe da un inci­dente del genere. Amon scuote la tes­ta, dice a gesti che quel­la macchi­na lì, con­tor­ta e aggrovigli­a­ta alle bar­riere come un bam­bi­no spaven­ta­to alle gambe del­la madre, non è la sua. Di colpo, il blu del­la Tyrrell cam­bia tonal­ità, diven­ta scuro e tetro come in quadro di Van Gogh, riflette vuo­to e ter­rore che col­mano l’an­i­ma di chi guar­da attoni­to ciò che res­ta del­la mono­pos­to numero 6.

Con il neoza­l­en­dese c’er­a­no Scheck­ter e Car­los Pace, grande ami­co di Cev­ert. Stew­art scende e si lan­cia di cor­sa ver­so le mac­erie. I tre lo trat­ten­gono. Jody dirà di non aver mai vis­to nul­la di simile.

“Sem­bra­va il luo­go di un dis­as­tro aereo”, disse Stew­art descriven­do per­fet­ta­mente la situ­azione. Spostarono la macchi­na con François anco­ra den­tro, non vi era neanche la più remo­ta pos­si­bil­ità che potesse esser­si sal­va­to. Uno degli enor­mi pneu­mati­ci pos­te­ri­ori qua­si gli fra­cassò la tes­ta e, come se non bas­tasse, la macchi­na si infilò tra i guardrail che crearono un “effet­to cesoia” pri­ma che la mono­pos­to si accar­toc­ciasse. Il cas­co rimase sul­la tes­ta e dal­la visiera si vede­vano anco­ra quegli occhi anco­ra azzur­ri che, con­sci di aver vis­to tut­to, si abban­do­nano lenta­mente al fred­do abbrac­cio del­la morte.

Jo Ramirez saltò su un car­ro attrezzi e si pre­cip­itò sul luo­go del­l’in­ci­dente. Tem­po dopo dirà: “Non ho mai vis­to niente di sim­i­le. Il dis­as­tro era… era ter­ri­bile. C’er­a­no par­ti del cor­po di François sul­la pista, la tes­ta cin­ta dal­la bandiera francese impres­sa sul cas­co sporge­va pen­zolante dal­la macchi­na. Era vera­mente orren­do, mi sono sen­ti­to male fisicamente”.

Poco pri­ma di par­tire per le qual­i­fiche vi fu un dibat­ti­to tra Stew­art e Cev­ert su quale mar­cia fos­se quel­la gius­ta per affrontare le Ess­es. Cev­ert disse che avrebbe volu­to provare a far­la in quar­ta, per avere una migliore accel­er­azione sul suc­ces­si­vo ret­ti­li­neo. Stew­art, dal­l’al­to del­la sua espe­rien­za, cer­cò di dis­suadere l’am­i­co, sug­geren­dogli che la quin­ta era nec­es­saria per ren­dere la macchi­na meno ner­vosa in accel­er­azione viste le scon­nes­sioni dell’asfalto.

Qual­cuno disse che il bel francese morì per aver prova­to ad usare la quar­ta, Niki Lau­da diede la col­pa ad un avval­la­men­to in usci­ta di cur­va, altri sosten­nero che si trat­tò di un mal­ore, vis­to che sul cas­co e sul­la tuta ven­nero trovate trac­ce di vom­i­to, prob­a­bil­mente derivan­ti dal­l’as­sun­zione di anti­n­fi­amma­tori per il dolore alla cav­iglia sca­tu­ri­to da un inci­dente avvenu­to la gara pri­ma con Jody Scheck­ter, per il quale i due ven­nero qua­si alle mani.

Non lo sapre­mo mai, e forse è gius­to così. Forse il des­ti­no ave­va deciso che era gius­to che quel ragaz­zo d’oro dal­l’aspet­to celes­tiale se ne andasse avvolto da un alone di mis­tero, come il mare nelle not­ti d’in­ver­no quan­do lo si osser­va nelle spi­agge più remote e deserte, dove il blu si mis­chia col nero del cielo in un’oriz­zonte col­mo di tur­ba­men­ti ed incertezze, e ci si chiede dove inizi l’uno e finis­ca l’al­tro, men­tre le risposte svanis­cono affo­gan­do nel blu tetro del mare.

Ph. Uknown ©

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