Nonostante le premesse, l’hype e le aspettative riposte, la Aston Martin AMR22 ha deluso a causa di una competitività nettamente inferiore a quanto, forse troppo ottimisticamente, preventivato. Analizziamo tutti i perché di questo clamoroso fiasco della scuderia di Silverstone.
In origine, doveva essere la vettura in grado di avviare un percorso di crescente ascesa in competitività che, seppur spalmato su cinque lunghi anni, avrebbe dovuto dar lustro quasi da subito alla Casa di Gaydon. All’atto pratico, invece, la Aston Martin AMR22 si è rivelata una monoposto tutt’altro che azzeccata, capace di mostrare ben pochi, se non pochissimi, sprazzi di competitività a causa di una serie di problemi congeniti non facilmente eliminabili.
Nata sotto la direzione di Andrew Green, la vettura britannica rappresenta la prima vera realizzazione completa da quando il prestigioso costruttore di Gaydon ha fatto il suo ritorno in Formula 1, data la appena marginale derivazione della AMR21 da quello che era, a tutti gli effetti, un progetto di Racing Point risalente all’anno prima. Caratterizzata da un doppio fondo, quindici feritoie per lato, due pance alte e lunghissime al limite degli ingombri massimi stabiliti dal template FIA per il 2022, nonché da un muso piatto e squadrato, la AMR22 non è certamente una vettura che manca di originalità, anzi. Tuttavia, non sempre una certa originalità è anche sinonimo di certificata efficacia in pista. E i motivi, a tal riguardo, non sono pochi.
Tanto per incominciare, non si può far a meno di sollevare qualche dubbio circa la reale utilità di uno schema a doppio fondo, almeno nella versione concepita dallo staff della “verdona.” Guardando quel che Alfa Romeo è riuscita a fare con un concetto, almeno in parte, simile, verrebbe da pensare che i problemi siano concentrati anche altrove e, di fatto, ciò non si discosta troppo dalla realtà. Tuttavia, nel caso della vettura elvetica, è bene ricordare quali siano le differenze che intercorrono in tema di raffreddamento e disposizione delle masse radianti, nonché di tutte le differenze dimensionali e architettoniche che discostano la collocazione delle fiancate britanniche, alte, fortemente elongate e dotate di una piccola apertura in ingresso, da quelle più filanti e lievemente rastremate verso il retro e, in minima parte, verso il basso della C42.
L’idea di base dietro al doppio fondo Aston Martin era quella di creare un vero e proprio corridoio attraverso cui far passare un consistente flusso d’aria proveniente dall’avantreno sacrificando, pertanto, l’ottimizzazione della sezione frontale del veicolo che risulta penalizzata dagli ingombri laterali e in altezza maggiorati, al fine di produrre un più elevato carico aerodinamico a cui avrebbe dovuto far eco un fondo vettura meno spinto per via del contributo fornito proprio dal passaggio appena citato. Sulla carta, soprattutto ad inizio stagione e con ancora troppe incognite su quali sarebbero state le soluzioni più vincenti, questo accorgimento poteva avere qualche vantaggio, anche se, soprattutto per ragioni di esperienza storica legata ai famosi precedenti della F92A, rimanevano i dubbi legati alle più repentine variazioni di assetto dovute alle non sempre gestibili flessioni del fondo vettura e ai fenomeni di saltellamento collegati all’uso dell’effetto suolo in maniera più amplificata.

All’atto pratico, ognuno di questi dubbi si è rivelato, difatti, fondato. Nel corso delle prime sette gare, la Aston Martin è riuscita a raccogliere appena sette punti contro i quindici della Haas, lasciando ben pochi dilemmi ulteriori sulle reali doti della AMR22 e rendendo, così, obbligatoria una quanto più repentina corsa ai ripari. Tale situazione si è, di fatto, materializzata quasi subito, tant’è vero che lo stesso Andrew Green ha confermato, a campionato iniziato, la volontà di sviluppare un pacchetto aerodinamico completamente nuovo al fine di ridimensionare le problematiche presentate dalla nuova nata di Gaydon, peraltro non agevolate da una performance della PU Mercedes che si è dimostrata, anch’essa, ampiamente sottotono.
Le modifiche, portate in pista in occasione del Gran Premio di Spagna, non brillano certo per originalità ma puntano, se non altro, a familiarizzare con concetti più vicini a quelli, senz’altro vincenti, propugnati da Adrian Newey e da Red Bull sulla propria RB18. Nel dettaglio, sono state completamente ridisegnate le pance, ora dotate del medesimo profilo discendente e dello stesso scavo, creato tramite intersezione di due diverse superfici, che caratterizza la fiancata della vettura austriaca e che dovrebbe, così, giovare di un potente vortice destinato al retrotreno e, dunque, anche al diffusore. Di pari passo, sono stati modificati anche i radiatori che, grazie ad una nuova sagomatura, si collocano ora in posizione arretrata e ad una differente altezza, nonché angolazione, se paragonati a quelli precedentemente adottati, anche questi realizzati sulla falsa riga di quelli sfoggiati dalla RB18. Ulteriori lavori di fino si ritrovano nella zona dell’Halo, dove spuntano due nuovi piccoli canali simil-Venturi che, grazie alla disposizione ai lati del tubo superiore, dovrebbero produrre due piccoli, ma utili, vortici al fine di far lavorare meglio l’alettone posteriore.
Nonostante i buoni propositi, queste modifiche hanno reso meno di quanto, forse, in molti avrebbero immaginato. Senza contare il polverone, peraltro inutile, sollevato in materia di copyright sulle idee altrui, un concetto da sempre estraneo al mondo delle competizioni per ovvie ragioni, appare chiaro come, al fine di migliorare un progetto nato male, non sia quasi mai sufficiente limitarsi a copiare un componente preso da un’altra vettura. Anche se si potrebbe pensare il contrario, la logica del motorsport suggerisce che se un veicolo nasce in una certa maniera e secondo una precisa impostazione di base, allora non può accogliere, peraltro impunemente, un elemento nato per collocarsi all’interno di un quadro tecnico-filosofico di natura completamente diversa, così come è stato per la RB18 che, ricordiamo, basa la propria struttura su concetti ben radicati in materia di effetto suolo “classico” che prevedono una ridotta altezza da terra, una massimizzazione dello sfruttamento del fluido a bassa pressione che scorre lungo il fondo e il conseguente scarico degli alettoni ai fini di una minor resistenza all’avanzamento, un sistema di auto-livellamento, comunque passivo, delle sospensioni e una semplice, ma intelligente, gestione dei filetti fluidi attorno alle pance che, come dimostrato dal fallimentare esperimento di Mercedes con la W13 in versione “sidepod-less”, non possono essere eliminate.

D’altronde, i fattori che contribuiscono a rendere una monoposto più o meno competitiva non sono mai pochi e la storia, ancora una volta, viene in soccorso. Se analizziamo l’emblematica stagione 1991 e, nello specifico, le due Ferrari utilizzate per disputare quel campionato, le similitudini appaiono quantomeno evidenti. In principio, la scuderia di Maranello pensò di utilizzare una versione lievemente rivista della vettura vice-Campione del Mondo in carica, ovvero la strepitosa e filante 641 o, per tutti, F1-90, al fine di evitare stravolgimenti, almeno apparenti, su quello che era parso essere un progetto vincente. Tuttavia, l’arretramento della posizione dei serbatoi carburante dalla precedente posizione ai lati dell’abitacolo, nel frattempo vietata per motivi di sicurezza, e che si era resa responsabile della caratteristica forma “a cassa di violino” delle pance, aveva lasciato una somiglianza ben solo apparente con la propria antesignana. Per quanto non sfigurò nel proprio debutto a Phoenix, la 642 si rivelò da subito lenta, inaffidabile e difficile da guidare, così come lamentato dai piloti Alain Prost e Jean Alesi anche a causa del gravissimo squilibrio dovuto all’innalzamento e allo spostamento, verso il retro, del baricentro dovuto alla nuova collocazione dei liquidi sopracitati, con conseguenze disastrose sull’assetto nel frattempo rivelatosi inadatto a causa di una cinematica nata “vecchia.” Al fine di porre un rimedio, Ferrari portò in pista quella che era, di fatto, una vettura quasi completamente nuova, almeno sotto il profilo aerodinamico e, per questo, siglata 643, esteticamente resa riconoscibile da pance, alettoni e muso, rialzato secondo le nuove tendenze tecniche, completamente inediti. Nonostante ciò, i problemi dovuti alle costanti vibrazioni, al limite della criticità, trasmesse dal sistema telaio-cinematico, non migliorarono in alcun modo, rendendo particolarmente difficile la vita dei due piloti che dovevano lottare con sovrasterzi continui, frenate difficili e una stabilità ormai divenuta un miraggio, soprattutto nell’ultima condizione menzionata.
Tutto ciò a prova di come, secondo i corsi e ricorsi storici delle competizioni, non basta mai modificare un solo elemento per sperare in un domani migliore.
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