Una storia di numeri, destino ed enorme talento, ma anche di sorrisi e carezze, ansie e promesse infrante. Tutto questo, è l’ultimo giorno di vita di Alberto Ascari.
“Vado a Monza per le prove di Castellotti, viene anche Gigi. Torno per l’una…”
La tavola è imbandita, Mietta aspetta con ansia a casa quel marito tanto calmo nella vita quotidiana quanto spericolato in pista. Accanto a lei, seduti ai lati lunghi del tavolo, ci sono i piccoli, Antonio e Patrizia. Con loro, nella sala da pranzo, il ticchettio incessante delle lancette. L’orologio non ha cuore, scorre imperturbabile senza lasciar spazio alle emozioni, tirandosi dietro quelle lancette con un rumore sempre più pesante. Vorrebbe zittirlo Mietta, metterci un dito nel mezzo nella speranza che il tempo stesso si fermi. I bimbi iniziano ad avere fame.
Tonino, sbuffando, guarda la mamma e spazientito gli chiede:
“Ma quanto ci mette papà?!”
“Adesso arriva tesoro, sai com’è, si sarà fermato a parlare con Gigi…”
“Si ma uffaaa io ho fame!!” -
Lo stomaco di Mietta invece è chiuso, ha sviluppato una repulsione verso il cibo. Ha divorato paure per pranzo, non ha bisogno di altro se non di acqua. Il bicchiere a capotavola è prima pieno poi vuoto, seguendo un rituale di piccoli sorsi che sembrano schiacciare l’ansia. Ma le paure sono apolari, non si legano all’acqua, la sconfiggono e risalgono verso la superficie. La finestra si apre e Patrizia corre avanti e indietro lungo il terrazzo. Basta poco ogni tanto ai bambini per scacciare le paure. Nel frattempo che Mietta abbozza un sorriso di circostanza alla figlia che non se ne cura, il suono del telefono la richiama in casa. Asciuga il sudore della mano destra sul vestito e tira su la cornetta: “Pronto?!”
“Vediamo se le mie ossa sono ancora in ordine” disse Ascari mentre il rombo del motore Ferrari si impossessava del circuito di Monza. “In fondo, Nuvolari correva anche con il busto di gesso, se ricordate…” urlò a Castellotti mentre scompariva verso l’orizzonte.
Proprio Castellotti, che di Ascari era allievo nell’arte della guida, quel giorno lo invitò in pista per vederlo testare la Ferrari 750 con cui avrebbe corso la domenica seguente. Fece giusto in tempo a dargli il suo casco, quando Alberto si era già calato nell’abitacolo in abiti borghesi, lui che, scaramantico com’era, non aveva mai corso senza la sua tuta e il suo casco azzurri, entrambi rimasti a casa, in Corso Sempione 60. Alberto stava tradendo la più solenne delle promesse, seconda solo, forse, a quella fatta alla moglie il giorno del matrimonio. Sulla tomba del padre, morto in un incidente in pista in Francia, giurò in lacrime che non si sarebbe mai più messo al volante il 26 di ogni mese. Alberto aveva 7 anni. Il papà, Antonio Ascari, tra due mesi ne avrebbe compiuti 37.
Quando squilló il telefono in casa Ascari erano le 13.35 circa dell 26 maggio 1955. Alberto aveva 36 anni ancora per due mesi, Patrizia, la figlia più piccola, 7. Perché il destino, alle volte, è viscido e subdolo. Ti attrae in un vortice di corsi e ricorsi storici, amoreggia con i numeri fino a renderli servili a quello che sembra essere il suo unico scopo: far soffrire. Come se il dolore non fosse abbastanza, come se piangere un morto in casa fosse banale. Dall’altra parte della cornetta, c’è la sorella di Villoresi, oramai carissima amica di famiglia:
“Alberto ha avuto un incidente, non pensare male…”
Mietta non risponde, rimane in silenzio, rivive tutti gli incubi vissuti la settimana prima quando Ascari volò in acqua alla curva delle piscine in quel di Montecarlo. “Gigi dice di andare subito là…” prosegue dall’altra parte del filo l’amica. Mietta bevve l’ultimo sorso d’acqua dal bicchiere, buttó giù quello che per peso specifico sembrava un macigno, caricò i bambini e partì alla volta di Monza. Villoresi, rimasto sulle tribune, si precipitò tra i primi sul luogo dell’incidente. “L’ho visto morire, il mio fratello di corsa, ed era tutto sangue; soffriva come forse nessuno ha mai potuto. Aveva ancora la cravatta ben annodata…” Scriverà Luigi il giorno dopo.
Mietta ripensava a quel bacio rubato prima della partenza da casa, quell’ultimo sorriso delicato e rassicurante che Alberto gli aveva donato, prima di finire contro il muro alla Curva del vialone, quella che tutti noi conosciamo oggi come Curva Ascari.
“Accogli, o Signore, sul traguardo l’anima di Alberto Ascari”, recitava uno striscione sulle colonne della chiesa di San Carlo al Corso. Quel giorno, al funerale, Piazza Duomo era invasa da una folla oceanica di persone di ogni età, sesso e religione. Chi c’era raccontava che così piena non l’aveva mai vista, neanche nei festeggiamenti dopo la Guerra. Il silenzio era religioso, tanto che si sentivano squillare i telefoni delle abitazioni. Nessuno però in quella zona rispondeva alle chiamate. Nessuna notizia, triste o allegra che fosse, meritava di esser data quel giorno. Era morto Alberto Ascari, questa era l’unica notizia.
Mentre il silenzio dominava Piazza Duomo, la leggenda ricorda Mietta in lacrime sussurrare:
“Me lo sentivo e volevo trattenerlo, ma poi lui mi ha sorriso…”
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