Il silenzio, quando piomba, non lascia scampo. Si fa notare, si impone, senza bisogno di inutili suoni. Si prende la scena arrivando impetuoso e inaspettato, portando con sé quell’onda di emozioni e sentimenti che si scaglia con prepotenza su coloro che la subiscono, inermi.
Nel caos dello scorso week-end, a Imola, nella baraonda che accompagnava i tifosi, c’è stato un momento in cui il silenzio mi ha colto alla sprovvista. Sarà che puntavo solo al posto in tribuna, alla Villeneuve, per assistere allo show della Formula 1, sarà che avevo fame anche se erano solo le 10:00 del mattino, o forse che lì davanti ho camminato così tante volte ma, passeggiando svelto nel parco delle Acque Minerali, ero passato affianco alla statua di Senna senza accorgermene, nascosto dal cappuccio e dall’ombrello.
Poi, il silenzio si è imposto, inaspettato e crudo come solo lui sa essere, portando con sé un brivido freddo che ha paralizzato il corpo, partendo dalla testa e arrivando alla punta dei piedi.
Il brusio e le risate di tutti coloro che erano al Gran Premio, davanti al monumento ad Ayrton si trasformano in un silenzio assordante, tanto, troppo simile, a quello che ha investito l’autodromo Enzo e Dino Ferrari alle ore 14:17 del 1 Maggio 1994.
C’è chi fa una foto alla statua, chi semplicemente la osserva, chi si fa immortalare affianco al corpo di bronzo del brasiliano. I più social, azzardano un selfie. Chi è costretto ad usare le parole, lo fa sussurrando, come in chiesa.
Sul fondo, appoggiati alla recinzione che divide Senna dal circuito, ci sono due ragazzi. Uno, aveva lo sguardo basso verso la base della statua, non riuscendo a guardare negli occhi il pilota. L’altro, che indossava una maglia giallo-verde e aveva una bandiera carioca come mantello, scrutava la pista.
Li osservo un attimo, in religioso silenzio, e mi avvicino, fermandomi a un paio di metri da loro. Non avevano più di 30–35 anni. Guardo la statua e nella mia mente risuonano le parole di Paolo Montevecchi e la voce delicata e struggente di Lucio Dalla.
“E ho deciso, una notte di maggio,
In una terra di sognatori,
Ho deciso che toccava, forse, a me.
E ho capito che Dio mi aveva dato
Il potere di far tornare indietro il mondo,
rimbalzando nella curva insieme a me.
Mi ha detto: «Chiudi gli occhi e riposa»
E io ho chiuso gli occhi”
Nel frattempo, il ragazzo che con gli occhi cercava dalla rete il muro del Tamburello si volta verso Ayrton. Scambia un paio di parole in portoghese con l’amico, con la voce rotta di quando il cuore batte in gola e ogni respiro pesa come un macigno sotto il peso delle lacrime pronte a sgorgare, poi chiude la conversazione con una frase che per me è stata una coltellata nel petto:
“Acquí està sangue brasileiro”.
Avrei voluto abbracciarlo, dirgli che quel sangue è un po’ anche nostro, che la morte è bastarda e quando arriva non bussa mai alla porta chiedendo permesso.
Avrei voluto dirgli che Ayrton è stato, è e sempre sarà anche un po’ figlio nostro e di tutti gli appassionati, che le immagini di quel casco giallo che domina in lungo e in largo nei circuiti di tutto il mondo si tramandano di generazione in generazione come si fa con le parole dei profeti.
Avrei voluto, ma non ce l’ho fatta.
Ho lasciato che il silenzio facesse il suo lavoro, quello di prendere le emozioni e amplificarle fino a renderle vive, quello di rendere ricordi passati mai così presenti.
Perché, forse, Ayrton Senna quel 1 Maggio 1994 non se ne è mai andato, anzi, ha trovato il modo di vivere in eterno nel posto in cui ha sempre desiderato restare: il cuore della sua gente.
“Tu mi hai detto «Chiudi gli occhi e riposa»
E io, adesso, chiudo gli occhi…”
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