Ore di palestra, diete equilibrate, voli interminabili, domande scomode e poi giù, dentro l’abitacolo a rischiare la propria incolumità, curva dopo curva, senza potersi piegare al cospetto della paura: è una vita vissuta costantemente sul filo del rasoio, quella dei protagonisti della classe automobilistica per eccellenza. Ma quando sotto al casco giace una mente martoriata da ritmi serrati e tensione alle stelle, c’è davvero qualcuno disposto a prendersi cura di quella parte del corpo che, troppo spesso, nella frenesia quotidiana, rimane abbandonata?
“È già stato un anno molto duro per ciò che ci sta succedendo intorno. In alcuni giorni è davvero difficile restare positivi”.
Sono racchiuse qui, in queste poche righe condivise da Lewis Hamilton sui suoi profili social, alcune delle sensazioni ricorrenti che, a causa dell’eterno circolo vizioso di notizie negative che sembra non accennare ad allentarsi ormai da mesi, hanno sfiorato la mente di ognuno di noi almeno una volta. Il pilota britannico non ha mai voluto nascondere alle numerose persone che lo seguono il suo stato d’animo, sicuramente messo a dura prova dai fatti turbolenti che lo hanno visto protagonista, a ben 37 anni, di una delle battaglie per il titolo più belle della storia della Formula 1. Ma come possono, eventi del genere, portare alla totale distruzione di quegli stessi nervi che, in pista, sembrano essere fatti di ferro?
Uno studio condotto da Mental Health in Sports ha portato alla luce dati impressionanti: oltre il 35% degli atleti professionisti soffre di una forma di malattia mentale (che sia essa lieve e sporadica o che sia grave e di natura cronica), anche se solo il 10% di questa fetta di sportivi chiede poi effettivamente aiuto a uno specialista, o più semplicemente a una persona vicina. Tra questi, nel mondo del Circus, spicca il racconto di Romain Grosjean, il cui benessere psicologico è stato messo ripetutamente alla prova nel corso della sua militanza nella competizione regina: alcuni anni dopo il disastroso incidente che lo ha visto coinvolto al via sul tracciato di Spa-Francorchamps, ancora prima che il francese uscisse miracolosamente illeso da uno schianto terrificante sulle strade di Sakhir, l’ora protagonista della IndyCar aveva ammesso pubblicamente di aver avuto bisogno di assistenza da parte di un esperto per superare barriere mentali altrimenti difficili da abbattere con la sola forza derivante da sé stesso:
“Usiamo ingegneri per impostare la vettura e usiamo allenatori per migliorare le nostre prestazioni fisiche. Perché non dovresti usare uno psicologo per migliorare il tuo cervello e il modo in cui funziona?”.
Spostandoci poi in casa McLaren, quello che sembra essere un tabù per la maggioranza diventa, in quel di Woking, una celebrazione di quanto più prezioso e unico abbiamo su questo pianeta: il nostro pensiero. L’associazione Mind, partner ufficiale del team papaya da ormai quasi due anni, ha ricoperto infatti un ruolo fondamentale nella crescita e nella scoperta della propria consapevolezza di uno dei giovani talenti più promettenti all’orizzonte: Lando Norris, entrato a soli 17 anni nel vortice infernale di quello che rimane, tutt’ora, uno sport capace di logorare l’animo e portare all’auto-sabotaggio, ha ammesso, in svariate occasioni, di essere stato vittima di quella che, nel campo della psicologia, è conosciuta come Sindrome dell’Impostore.
Si tratta di una condizione molto diffusa, in particolar modo tra le persone di successo sottoposte continuamente al giudizio altrui, che porta alla convinzione di non meritare alcun riconoscimento poiché quanto fatto sembra non essere mai abbastanza. E sono proprio le sentenze esterne che, frequentemente, hanno portato il numero 4 della scuderia di Zak Brown ad abbandonarsi all’idea di non dover essere lodato per i copiosi traguardi già raggiunti ad una così tenera età: visto da tutti come il novello Daniel Ricciardo, sempre sorridente e capace di portare un sorriso anche in situazioni scomode, il pilota di Bristol si è lasciato andare a dichiarazioni angoscianti, raccontando di come queste debolezze vengano costantemente rinnegate, per il timore che possano risultare compromettenti per la propria reputazione di atleti professionisti, dalla stoffa per gareggiare per ore a velocità mozzafiato, ma poco preparati a combattere quella solitudine che stringe il cuore in una morsa devastante nel corso di stagioni che si fanno, via via, carico di un numero di eventi troppo elevato.
È chiaro, quindi, come la salute mentale possa essere un fattore di grandissimo peso nello svolgersi, senza intoppi, di una competizione di così alto livello quale la Formula 1: i piloti sono prosciugati delle loro effettive emozioni, costretti a mascherare la loro parte più reale alle stesse telecamere che li hanno portati a vivere l’opportunità di correre su monoposto sensazionali in circostanze privative di affetti e punti fermi.
Con un calendario che, ad oggi, propende all’allungarsi anno dopo anno, dovremmo rivolgere la nostra completa attenzione al benessere della mente e dell’animo di quelli che, a noi, appaiono come supereroi dotati di poteri soprannaturali. Esattamente come tutti noi, nella loro strana normalità, si sentono inghiottiti da un ambiente che va oltre le loro volontà e che non si ferma quando qualcuno grida con tutto il fiato che ha in gola di essere rimasto indietro. Sta a chi si ritrova con i gomiti sull’asfalto, sanguinanti per il colpo, radunare in quelle stesse gambe che lo hanno tradito le poche forze ancora disponibili per poi, con uno slancio, tornare a galla e riscoprirsi vivi, ancora una volta.
Ph. Mercedes-AMG PETRONAS Formula 1 Team / McLaren Formula 1 Team ©