Quello della flessibilità alare è un tema annoso che domina le più accese e numerose proteste del Motorsport. Ma qual è il motivo di tanta importanza? Cerchiamo di fare chiarezza.
Ogni stagione di Formula 1 che si rispetti ha, come da tradizione, un argomento centrale attorno a cui far ruotare contemporaneamente le ire dei tecnici, la curiosità degli osservatori e, spesso, la scocciatura degli stessi fan, talvolta tediati da lunghe e logoranti polemiche destinate a finire in qualche tribunale sportivo o sul tavolo della direzione tecnica della FIA.
Nel caso del campionato in corso, la più forte delle polemiche è incentrata su una apparente irregolarità nella flessione delle ali che alcune vetture sembrano aver mostrato già nel corso dei primi appuntamenti del 2021. Tuttavia, nonostante la questione sia salita agli onori della cronaca con una risonanza tale da suonar quasi eccessivamente ridondante, è opportuno sottolineare come si tratti più di una questione proposta ciclicamente, piuttosto che come un qualcosa di inedito di cui scandalizzarsi o stupirsi con sorpresa. Ed è proprio per la non-inedita natura dell’argomento che abbiamo deciso di far ricorso al suffisso “-gate”, ovvero all’elemento che accompagna ogni scandalo che si rispetti, per un tema che, poi, così scandaloso non è.
La situazione appena descritta si è già presentata, infatti, non solo in tempi recenti e già discussi, come avvenuto nel corso del 2020 in cui, a fungere da protagonista, era l’alettone posteriore “torcente” della Mercedes F1 W11, ma addirittura nel corso dei primi anni del decennio appena trascorso. Ad esser precisi, occorre riavvolgere il nastro fino al Gran Premio d’Ungheria del 2010, quando, ad imperversare, era proprio una polemica sulla flessibilità delle ali della Red Bull RB6 e alla quale poche altre vetture, inclusa la Ferrari F10, riuscivano ad avvicinarsi. Su un circuito dal layout contorto e dai difficili sorpassi come l’Hungaroring, emergono infatti tutti i vantaggi che una simile progettazione può portare con se e, se dal lato di Horner & Co. risulta difficile negare l’evidenza, da quello di Martin Witmarsh e della McLaren appare facile mostrare quanto nei limiti fosse la vettura della squadra di Woking, a cui si accompagna una dimostrazione di Hamilton che, al fine di sottolineare quanto limitata fosse la flessione della propria ala, inizia a “saltare” col piede sull’alettone anteriore della sua MP4-25, evidenziando quanto distante essa fosse dalla distanza minima di 2 cm dal suolo richiesta dal regolamento in corrispondenza di un carico di 100 Kg.
Ed ecco che, ad oltre una decade dai fatti dell’Ungheria, il tema in questione torna ad occupare le prime pagine delle riviste e dei web-magazine specialistici, come se il tempo non fosse mai davvero passato. La domanda, dunque, sorge spontanea: perché avere delle ali flessibili in Formula 1 è così importante?
La risposta è presto servita.
Al fine di sfruttare appieno le prestazioni di un veicolo, nonché per ottimizzarne i consumi, è spesso opportuno che si generino delle forze localizzate laddove viene richiesto, come efficientemente operato nel caso dei sistemi di torque-vectoring e di aero-vectoring. Nel mondo delle competizioni, però, i dispositivi aerodinamici attivi sono stati banditi da lungo tempo, ovvero da quando, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, innumerevoli sono state le sperimentazioni ostentate dai costruttori, grandi e piccoli, impegnati nelle competizioni. Nello specifico, fu proprio in quegli anni che, seppur con mezzi enormemente più limitati di quelli odierni, si iniziò a comprendere l’importanza dell’azione che l’aerodinamica poteva esercitare su uno specifico lato della vettura attraverso la presenza di dispositivi aerodinamici ad azionamento asimmetrico. L’apice di tale sviluppo venne incarnato perfettamente dalle varie Porsche 917 e 908 LH del 1969, in cui vennero utilizzati degli alettoni posteriori muniti di flap mobili, comandati da leveraggi collegati alle ruote, la cui azione si modificava al variare dell’assetto della vettura in pista.
Tali accorgimenti, estremi per l’epoca e, ancora a distanza di cinquant’anni, degni di nota e di studio, sottolineavano quanto importante potesse essere lo sfruttamento di tali elementi in un contesto competitivo, come quello delle gare di durata, in cui prestazioni e usura fanno da padroni, seppur finendo per scontrarsi direttamente con quanto stabilito dai rigidi regolamenti che ne vietano fermamente l’utilizzo. Con l’avvento dei materiali compositi, però, si è presto resa possibile la circonvenzione di tali limitazioni, con un ventaglio di possibilità che sembrano nuovamente avvicinare i dispositivi alari alle prestazioni di superfici mobili altrimenti vietate.
Grazie alle infinite possibilità offerte dalle analisi FEM e dai vari software di calcolo, tra cui fanno capolino i diffusi ICEM e COMSOL, è possibile predisporre il numero di ply, ovvero pelli, di materiale composito, nonché l’orientazione delle stesse fibre che, con opportuni angoli, possono sopportare adeguatamente le sollecitazioni desiderate a monte. In termini pratici, ciò si traduce nella duplice possibilità di fornire alle ali di una vettura da competizione un certo grado di flessione complessiva, a cui si accompagna una torsione lungo l’asse Y, disposto longitudinalmente e passante per il centro della vettura, attraverso cui è possibile aumentare il carico aerodinamico sul lato della vettura che, in percorrenza di curva, più ne necessita.
A seguito delle lamentele mosse in tale ambito, la FIA ha annunciato l’adozione di un nuovo sistema di monitoraggio che, seppur impiegato già a partire dal 2021, dovrebbe entrare in pieno vigore nel corso del 2022, ovvero nell’anno in cui la massima serie a ruote scoperte tornerà ad abbracciare una architettura ad effetto suolo amplificato e di fronte alla quale si prospettano, giocoforza, nuove ed entusiasmanti possibilità tecniche.
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