Ci sono stati progettisti ed ingegneri, nella storia del settore automotive, capaci di cambiare il mondo e di contribuire alla creazione di alcune tra le migliori vetture di sempre. Vittorio Jano, indubbiamente, fa parte di questa cerchi ristretta. Un uomo straordinario, a cui la storia, purtroppo, ha voltato le spalle.

C’è sta­to un momen­to in cui la veloc­ità osses­sion­a­va il mon­do intero. Cav­a­lieri dalle mani sporche di gras­so e caschi in cuoio rigi­do si dan­na­vano l’anima per scon­fig­gere gli avver­sari in trac­ciati che si sno­da­vano tra i vicoli ciechi del cen­tro cit­tà, recin­tati da ali di fol­la entu­si­as­mate dal pas­sag­gio di mostri su ruote che striz­za­vano l’occhio ad un futuro già in odor di presente.

Pro­prio in quel peri­o­do, a cav­al­lo tra gli anni ’20 e ’30, l’ingegneria auto­mo­bilis­ti­ca era in con­tin­ua trasfor­mazione e l’Italia e gli ital­iani era­no tra i prin­ci­pali art­efi­ci di questo proces­so evo­lu­ti­vo.
Tra gli uomi­ni che più seg­narono il pas­so in quegli anni c’era un sig­nore del nord che con­tribuì in maniera mas­s­ic­cia alla nasci­ta del mito Alfa Romeo. Il suo nome è Vit­to­rio Jano.

Jano, all’anagrafe Vic­tor Jànos per via delle sue orig­i­ni unghere­si, nacque a San Gior­gio Canavese, nel­la provin­cia tori­nese, nel 1891. Dopo il diplo­ma, appe­na diciot­tenne, venne assun­to dal­la STAR per poi pas­sare alla FIAT dove, nel 1911, fu assun­to come “dis­eg­na­tore medio”. Il pri­mo ad accorg­er­si del suo enorme tal­en­to fu Giulio Cesare Cap­pa (noto per aver prog­et­ta­to la Bugat­ti Type 53), allo­ra a capo dell’Ufficio Prog­et­ti, che lo volle al suo fian­co. In quell’ufficio ebbe modo di impara­re dai più promet­ten­ti tra gli ingeg­neri e i prog­et­tisti pre­sen­ti in Europa, con­tribuen­do in maniera fon­da­men­tale alla vit­to­ria del­la FIAT 805/405 al Gran Pre­mio d’Europa a Mon­za del 1923. In quell’occasione, fu fon­da­men­tale l’intuizione di Jano di far cor­rere le vet­ture tori­ne­si con il com­pres­sore vol­u­met­ri­co Roots al pos­to del Wit­ting.
Pro­prio gra­zie a ques­ta vit­to­ria, Jano divenne ogget­to delle atten­zioni di colui che, nel tem­po diven­terà il più grande di tut­ti: Enzo Ferrari.

Il Drake, in quegli anni, lavo­ra­va per l’Alfa Romeo come pilota e con­sulente e ave­va rice­vu­to dal respon­s­abile sporti­vo Gior­gio Rim­i­ni un ordine pre­ciso: “Fer­rari, dove c’è del­la gente com­pe­tente, por­ta­la via con tut­ti i mezzi toller­a­bil­mente leciti…”.
Così, nel set­tem­bre 1923, il com­menda­tore si recò a casa di Vit­to­rio a Tori­no e con­vinse pri­ma la moglie e poi l’ingegnere. Stipen­dio rad­doppi­a­to, allog­gio azien­dale e ruo­lo di tito­lare dell’Ufficio di Prog­et­tazione.
Un’offerta trop­po allet­tante per Jano, che nel frat­tem­po era anche diven­ta­to padre di Francesco.

La pri­ma opera milanese di Vit­to­rio Jano fu l’Alfa Romeo P2 che esor­dì uffi­cial­mente il 3 agos­to 1924 a Lione. Dal­la battaglia con le migliori vet­ture dell’epoca, la P2 ne uscì vincitrice, gui­da­ta al tri­on­fo da Cam­pari. Fu doppi­et­ta all’appuntamento suc­ces­si­vo, quel Gran Pre­mio di Mon­za in cui ascari stac­cò il com­pag­no di squadra Wag­n­er di sedi­ci minu­ti e il pri­mo dei piloti clas­si­fi­cati non al volante di un Alfa accusa­va un dis­tac­co di oltre un’ora.
Quell’appuntamento venne anche ricorda­to per essere sta­to l’unico Gran Pre­mio uffi­ciale in cui vi fu l’intervento del diret­tore di gara, Arturo Mer­can­ti, per lim­itare la veloc­ità mas­si­ma dei piloti in quan­to, sec­on­do lui, quel­la rag­giun­ta da quei boli­di era trop­po peri­colosa.
L’anno suc­ces­si­vo la P2 per­me­t­terà ad Alfa Romeo di fre­gia­r­si del­la vit­to­ria del Cam­pi­ona­to del Mon­do Costruttori.

Con­tem­po­ranea­mente, Vit­to­rio Jano si prese cura di prog­ettare la vet­tura che lo lancerà defin­i­ti­va­mente nell’olimpo dei migliori prog­et­tisti d’auto: l’Alfa Romeo 6C 1500. Pre­sen­ta­ta nell’aprile del 1925 al Salone dell’Automobile di Milano, la 6C ottiene ogni suc­ces­so pos­si­bile, sia sulle piste che sul piano com­mer­ciale. La pecu­liar­ità dell’auto era il motore, cuore pul­sante ed ele­men­to indis­cutibil­mente iden­ti­fica­ti­vo del­la pic­co­la di casa Alfa. Il propul­sore a sei cilin­dri ideato da Jano era inizial­mente dota­to di basa­men­to in allu­minio e monobloc­co e tes­ta­ta in ghisa ed era in gra­do di svilup­pare 44CV a 4200 giri al min­u­to. Un’enormità per un motore così pic­co­lo, almeno sec­on­do gli stan­dard dell’epoca. L’ideatore del­la 6C era tal­mente avan­ti che aumen­tò di cir­ca il 200% la resa ter­mi­ca rispet­to agli stan­dard di allo­ra.
Sarà però la sua erede, la 6C 1750, a con­sacrare defin­i­ti­va­mente Jano. Diven­terà un’auto di cul­to sin da subito, la vet­tura per­fet­ta per tut­ti col­oro che ricer­ca­vano la nat­u­rale fusione tra ele­gan­za e poten­za. Il sei cilin­dri pas­sa a 1752 cen­timetri cubi­ci e viene equipag­gia­to con un com­pres­sore vol­u­met­ri­co a lobi che per­me­tte di svilup­pare 85 CV, che sal­go­no a 102 nei sei esem­plari cosid­det­ti “tes­ta fis­sa”, con la tes­ta­ta fusa in bloc­co con i cilindri.

Negli stes­si anni, l’ingegnere tori­nese era sta­to incar­i­ca­to dal­la casa del Portel­lo di numerosi altri prog­et­ti, dive­nen­do una figu­ra cen­trale dell’Alfa Romeo. Un suc­ces­so dopo l’altro, in un cli­max che rag­giunge un’altra vet­ta altissi­ma nel 1932, anno dell’uscita del­la Tipo B o P3, l’erede nat­u­rale del­la P2. Il motore in lega a otto cilin­dri del­la nuo­va vet­tura da cor­sa idea­ta da Jano segui­va lo schema del­la 8C 2300, ma era correda­to da una serie infini­ta di soluzioni geniali. Per ovviare al prob­le­ma del sovraster­zo cron­i­co delle mac­chine di allo­ra, ad esem­pio, Jano pose il dif­feren­ziale subito dopo il cam­bio, sfrut­tan­do due alberi di trasmis­sione obliqui e con due cop­pie coniche per trasmet­tere il moto al ponte pos­te­ri­ore. Di fat­to, quin­di, frizione, cam­bio e dif­feren­ziale sono in bloc­co con il motore. Due com­pres­sori per­me­t­te­vano di rag­giun­gere i 180 CV a 5600 giri al min­u­to. Il debut­to, in casa a Mon­za, fu nuo­va­mente vin­cente, gra­zie al com­pianto Tazio Nuvolari. Alla fine del­la sta­gione, dopo altre sei vit­to­rie, la P3 e “Nivola” furono incoro­nati Cam­pi­oni del Mondo.

“Abbi­amo mostra­to al mon­do quel­lo che vol­e­va­mo, di essere invincibili”.

Con queste parole l’Alfa Romeo annun­cia il ritiro dalle corse, sul finire del 1933. In realtà, la crisi eco­nom­i­ca ave­va col­pi­to forte anche il Bis­cione, che era pas­sato sot­to l’ala delle fab­briche con­trol­late dall’Istituto di Ricostruzione Indus­tri­ale. La crisi eco­nom­i­ca coin­cide con il decli­no del­la figu­ra di Jano all’interno delle ger­ar­chie azien­dali. Una per­son­al­ità forte e ruvi­da come la sua, poco incline al com­pro­mes­so e alla medi­azione polit­i­ca, coz­za­va spes­so con quel­la di Ugo Coz­za­to, il diret­tore gen­erale dell’azienda scel­to da Mus­soli­ni. Ridi­men­sion­a­to nelle man­sioni e con sem­pre meno uomi­ni al suo fian­co, al Salone dell’Automobile del 1934 Jano pre­sen­tò la 6C 2300, l’ultimo dei cap­ola­vori prog­et­tati dall’ingegnere tori­nese per l’Alfa Romeo.
Sul finire del 1937, resosi con­to l’azienda ave­va scommes­so tut­to sul­la 158, real­iz­za­ta dal suo allie­vo Gioachi­no Colom­bo e non da lui, Vit­to­rio Jano decise che il suo tem­po in Alfa Romeo era concluso.

“Jano si dis­tac­ca dall’Alfa per un nec­es­sario peri­o­do di riposo” titolano i gior­nali all’indomani delle sue dimis­sioni. Era inizia­ta quell’opera, tipi­ca­mente fascista, di svil­i­men­to di una figu­ra ormai diven­ta­ta sco­mo­da. Jano era sta­to colui che ave­va ripor­ta­to in alto l’Alfa Romeo, un luminare che ave­va scon­fit­to la poten­za teu­ton­i­ca con­tro ogni pronos­ti­co, dan­do lus­tro al bis­cione.“
Tut­ti gli sportivi ital­iani gli inviano il def­er­ente e ricorde­v­ole salu­to delle armi” chiosa­va la stam­pa di regime. Quel­lo stes­so salu­to delle armi che viene trib­u­ta­to ai vin­ti. Ma ques­ta nar­razione non rende gius­tizia all’uomo e all’ingegnere che fu Vit­to­rio Jano.
Ovvi­a­mente la volon­tà di riscat­to si impose e non dovette atten­dere molto pri­ma di avere l’occasione per il rilancio.

Sul finire del 1937 arri­va infat­ti la chia­ma­ta di Lan­cia, che è pron­to a met­ter­lo a capo del Repar­to Espe­rien­ze. Ben con­tento di tornare nel­la sua Tori­no, Jano si mise subito al lavoro e dimostrò nuo­va­mente, se ce ne fos­se sta­to anco­ra bisog­no, tutte le sue capac­ità. Dal­la sua pen­na proven­gono i dis­eg­ni dell’Ardea, dell’Aure­lia e del­la pic­co­la Appia, per cui prog­et­tò un motore da 1100 cen­timetri cubi­ci dal peso di soli 83 kg, un’inezia per l’epoca.
Spes­so sot­to­va­l­u­ta­to ma di grande impat­to fu anche il prog­et­to del camion Esa­tau, carat­ter­iz­za­to da una ver­sa­til­ità incred­i­bile tan­to che fu uti­liz­za­to in ogni cam­po immag­in­abile, dalle bis­arche al trasporto per­sone, dalle auto­cis­terne al clas­si­co impiego da cantiere. Il suo motore da 122 CV, suc­ces­si­va­mente incre­men­tati a 132, era in gra­do di spin­gere il mez­zo fino ad una veloc­ità di cir­ca 70 km/h man­te­nen­do un con­sumo di car­bu­rante infe­ri­ore ai 20 litri per 100 km, cosa fino a quel momen­to impos­si­bile per i camion. Tut­to ciò, sul­la base di una por­ta­ta utile supe­ri­ore alle 7 ton­nel­late e mez­zo. Una vera e pro­pria riv­o­luzione nel mon­do dei camion.
Men­tre Jano era nuo­va­mente sul­la cres­ta dell’onda, un avven­i­men­to dram­mati­co colpì la famiglia dell’ingegnere. Il figlio Francesco, appe­na ven­tenne, muore durante il servizio mil­itare per una banale malat­tia ai pol­moni. Da quel momen­to, il carat­tere dell’ingegnere tori­nese acuì sem­pre più le sue spigo­la­ture, por­tan­do­lo a chi­ud­er­si in sé stes­so e nelle sue con­vinzioni.
Quan­do nel 1951 Gian­ni Lan­cia decise di riportare l’azienda di famiglia nel mon­do delle corse, Vit­to­rio fu chiam­a­to a dirigere il prog­et­to. I risul­tati arrivarono, pri­ma con la B20, deriva­ta dall’Aurelia, poi con la berlinet­ta D20, spin­ta da un sei cilin­dri quadro di 3 litri che super­a­va 215 CV. Fu poi la vol­ta del­la D23 Spi­der ma, soprat­tut­to, del­la D24, diven­ta­ta cele­bre per la vit­to­ria del­la Car­rera Panamer­i­cana del 1953. In quell’occasione, Juan Manuel Fan­gio riuscì a pre­cedere Taruf­fi e Castel­lot­ti, pur sen­za aver vin­to una sola tap­pa. La con­cor­ren­za delle Fer­rari fu let­teral­mente schiantata.

Venne poi il momen­to del­la For­mu­la 1, per cui venne prog­et­ta­ta la D50 che seg­na il can­to del cig­no di Vit­to­rio Jano. Molti furono i fat­tori che non per­mis­ero alla squadra Lan­cia di non ottenere i suc­ces­si sperati, ma le caren­ze mag­giori riguar­da­vano il potere eco­nom­i­co dell’azienda e le lacune di prog­et­tazione, dovute ad un amal­ga­ma non cer­to per­fet­ta nel grup­po di lavoro cap­i­tana­to da Jano.
L’auto era comunque riv­o­luzionar­ia, in par­ti­co­lare per la col­lo­cazione dei ser­ba­toi, posizionati ai lati dell’auto. Tale soluzione, sug­geri­ta da Gian­ni Lan­cia e mutu­a­ta dall’aeronautica, per­me­t­te­va un notev­ole van­tag­gio a liv­el­lo aero­d­i­nam­i­co ma ren­de­va crit­i­ca la ges­tione del cen­trag­gio del­la vet­tura a segui­to del calo di car­bu­rante durante la gara. Come con­fer­ma­to dai piloti, la D50 ave­va una sta­bil­ità eccezionale ad inizio gara, con i ser­ba­toi pieni, ma diven­ta­va molto com­pli­ca­ta man mano che il liv­el­lo del car­bu­rante cala­va ed i ser­ba­toi si svuo­ta­vano. Il propul­sore di quest’auto fu prog­et­ta­to da Ettore Zac­cone Mina, grande motorista il cui rap­por­to con Jano divenne criti­co durante il peri­o­do di svilup­po del­la D50. Molte dis­cus­sioni riguardarono la scelta del motore, dell’alimentazione e l’equilibratura dell’albero motore.
Pri­ma si optò per un sei cilin­dri a V di 60°, capace di erog­a­re al ban­co 238 CV a 7200 g/min. Jano non fu con­tento del prog­et­to e spinse per la real­iz­zazione di un altro propul­sore, la cui prog­et­tazione, su indi­cazione diret­ta di Gian­ni Lan­cia, fu affi­da­ta come già antic­i­pa­to ad Ettore Zac­cone Mina. Uno smac­co per Jano. Zac­cone Mina sfrut­tò tutte le sue conoscen­ze sul tema delle leghe leg­gere, e optò per ren­dere il basa­men­to del motore parte inte­grante del­la strut­tura del vei­co­lo, essendo rigi­da­mente con­nes­so con ele­men­ti del telaio tubo­lare. Altre dis­cus­sioni riguardarono il tipo di ali­men­tazione. Jano vol­e­va uti­liz­zare i clas­si­ci car­bu­ra­tori, men­tre Zac­cone Mina (sup­por­t­a­to da Gian­ni Lan­cia) predilige­va l’iniezione diret­ta. Leggen­da nar­ra che venne anche cre­ato da Zac­cone Mina un propul­sore di poco più di 310 cm³, ovvero esat­ta­mente 1/8 del­la cilin­dra­ta del motore pre­vis­to per la D50, ali­men­ta­to ad iniezione per dimostrare la valid­ità del­la sua idea.
Non ci fu ver­so di con­vin­cere però Jano che tirò drit­to come un treno, instal­lan­do quat­tro car­bu­ra­tori doppio cor­po.
Dopo innu­merevoli ritar­di, la D50 debut­tò al Gran Pre­mio di Spagna dell’Ottobre 1954, nonos­tante per­sis­ten­ti prob­le­mi al com­pli­catis­si­mo impianto frenante a tre ganasce. L’avventura in For­mu­la 1 del­la Lan­cia non decollerà mai. Dopo il pri­mo suc­ces­so al Gran Pre­mio del Valenti­no, Vit­to­rio Jano rasseg­nò le pro­prie dimis­sioni dal­la Lan­cia, rima­nen­do però come con­sulente tec­ni­co.
Un arti­co­lo dell’epoca, com­men­tan­done il ritiro, ne dipinge un vivi­do quadro risalente pro­prio alle prove del Valenti­no, che dimostra la soli­tu­dine dell’ingegnere all’interno del box:

“Se ne sta­va iso­la­to, cinquan­ta metri pri­ma dei box­es, un piede appog­gia­to sopra una bal­la di paglia, il volto affi­la­to sol­ca­to da rughe pro­fonde e pal­li­do più di sem­pre, l’immancabile bocchi­no di car­tone ser­ra­to tra i den­ti e nel quale aspi­ra­va una sigaret­ta lenta­mente, da fuma­tore spi­eta­to. […] Questo addio di Vit­to­rio Jano all’automobilismo per così dire atti­vo, nel giorno in cui le vet­ture da lui ideate e preparate han­no dis­si­pa­to i dub­bi, smorza­to le polemiche e mag­a­ri stron­ca­to insin­u­azioni, ha un sig­ni­fi­ca­to pateti­co che dà un sen­so di com­mozione. Può anche avere un sapore polemi­co, ma a noi piace sot­to­lin­earne solo il lato umano…”.

La chiusura defin­i­ti­va dell’esperienza con Lan­cia arrivò poco dopo. Arrivò allo­ra la chia­ma­ta dell’amico Enzo Fer­rari, che gli chiese di offrire la sua espe­rien­za all’azienda di Maranel­lo, in qual­ità di con­sulente. Il rap­por­to pres­soché frater­no che si era instau­ra­to tra Vit­to­rio e il Drake con­tin­uò fino al 13 mar­zo 1965.

La sig­no­ra Rosi­na, era in cuci­na, inten­ta a preparare la colazione con la cameriera quan­do, d’un trat­to, ecco esplodere un colpo sec­co. Il rumore proveni­va dal­la cam­era da let­to.  Rosi­na si pre­cipi­ta nell’altra stan­za e si tro­va davan­ti una sce­na rac­capric­ciante. Vit­to­rio Jano, suo mar­i­to, era ste­so sul let­to, avvolto da una poz­za di sangue. Un colpo di pis­to­la in boc­ca deve esser­gli sem­bra­to il modo migliore per con­clud­ere un’esistenza vis­su­ta e ter­mi­na­ta al lim­ite, in pista e nel­la vita, con il cor­ag­gio a fare da trait d’union. Dopo aver per­so dram­mati­ca­mente un figlio, fu attac­ca­to anche dal can­cro e questo, forse, gli sem­brò trop­po. Se ne andò da vin­cente, come ave­va fat­to durante la sua car­ri­era da ingeg­nere, pri­ma che quel male potesse far­gli perdere la ragione e la battaglia con la vita. Ha volu­to scegliere lui, anche come e quan­do morire.

“Noto prog­et­tista di auto da cor­sa si uccide con la pis­to­la…” tito­la La Stam­pa il giorno dopo, affi­an­co alla notizia del sui­cidio di un muratore.

Era come se il mon­do si fos­se dimen­ti­ca­to di lui. Una morte come un’altra. A ren­der­gli gius­tizia sarà l’amico e col­le­ga Domeni­co Jap­pel­li, che dalle colonne di Riv­ista Lan­cia espli­ca al mon­do in maniera incon­tro­vert­ibile chi fos­se Vit­to­rio Jano:

“Con lui, con le insu­per­abili vit­to­rie delle sue mac­chine, vedem­mo nascere il grande sport del motore, e il fan­tas­ti­co pre­do­minio ital­iano su tutte le piste, su tut­ti i cir­cuiti sui quali si anda­va affi­nan­do la tec­ni­ca motoris­ti­ca. Con lui bril­lò di vivi­da luce l’ultima fiac­co­la, di cui fu por­ta­tore, che la Lan­cia trasmise poi ad altre mani, sen­za lagrime e sen­za pen­ti­men­ti, se pur con legit­ti­mo rimpianto. A Vit­to­rio Jano strap­parono le sue crea­ture, come la sven­tu­ra gli ave­va strap­pa­to il suo gio­vane figlio, ma quan­ta parte di lui rimase nel vastis­si­mo cam­po da lui sem­i­na­to a piene mani. Dal suo cam­po non solo era­no ger­mogli­ate tec­niche nuove, soluzioni bril­lan­ti diven­tate poi pun­ti fon­da­men­tali nel­la costruzione auto­mo­bilis­ti­ca, ma era­no nati addirit­tura uomi­ni, uomi­ni nuovi venu­ti su con i nuovi meto­di e cresciu­ti sot­to la sua pater­na attenzione…”

Un’eredità, quel­la las­ci­a­ta da Vit­to­rio Jano, che servirà da base a tut­ti i mag­giori ingeg­neri ital­iani del­la sec­on­da metà del ‘900.

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