Ci sono giorni bui, che pesano come un macigno sul cuore. Ma quando a far la fila per entrare in chiesa a salutarti ci sono i volti più noti del Motorsport, significa semplicemente che sei un numero uno.
A Basiglio, comune di circa 8.000 anime in provincia di Milano, il 28 Aprile 2001 è pieno di gente. Nell’aria, si propaga il silenzio freddo del lutto. Fuori dalla chiesa del Gesù Salvatore, a Milano 3, ci sono almeno 2.000 persone, provenienti da ogni nazione e ceto sociale, di ogni età e sesso. A rompere il silenzio, le campane e un blues allegro, suonato da una banda di paese, voluta da Nadia per far sì che il funerale non fosse troppo triste.
“Se qualcuno vuol dire qualcosa, venga…” dice il prete mentre il funerale volge al termine. Non si muove nessuno. Piero Ferrari, arrivato da Los Angeles, alza impercettibilmente le spalle e, nascosto dagli stessi occhiali che resero celebre il padre, abbassa lo sguardo. Stava provando sulla propria pelle il motivo per cui il Drake si impose la regola di non avere piloti italiani in scuderia dopo la tragedia di Bandini. “Era un vaccino contro il dolore — diceva Piero — perché poi con gli italiani ti affezioni, diventi amico e se succede qualcosa fa male il doppio”. Quella regola la infranse proprio per portare a Maranello quel giovane milanese di belle speranze, educato, simpatico, professionale e capace che prenderà sotto la sua ala portandolo in famiglia.
Non si alzò René Arnoux, visibilmente commosso e incupito, che preferì asciugarsi le lacrime. Lui che con quella faccia buffa e allegra riusciva sempre a strapparti un sorriso, quel giorno era visibilmente provato. Lui, che dopo aver condiviso il box Alboreto, restò stupito di “come una persona di questa gentilezza e di questa cortesia potesse andar forte in un circuito…”
Non si alzò neanche Luca Cordero di Montezemolo, uno che raramente rimane senza parole. Rimase in silenzio anche Massimo Boldi, in lacrime, ad osservare con lo sguardo a terra.
Nessuna parola fu proferita dai tifosi presenti, che negli anni 80’ avevano perso la voce per incitarlo negli autodromi di tutto il mondo e si ritrovavano a pensare a tutte le gioie e i dolori sportivi condivisi con Michele. Rimasero in silenzio anche Mike Buongiorno ed Adriano Galliani, Teo Fabi e Riccardo Patrese, Dindo Capello ed Emanuele Pirro. Come loro fecero Thierry Boutsen, Paolo Barilla, Mauro Baldi, Pierluigi Martini, Beppe Gabbiani, Bruno Giacomelli, Luca Badoer, Giampaolo Dallara, Reinhold Joest, Giorgio Francia, Antonio Tomaini e Jean Claude Migeot. Paolo Scaramelli, il suo capomeccanico, una volta partito il carro funebre verso il cimitero dirà: “Lo ricordo come grande pilota, ma soprattutto come un grande amico. Michele era un signore. Quando entrava ai box, il suo saluto era un grande sorriso. Mi spiace che in questa occasione la nostra tristezza non ci abbia permesso di ricambiare con un analogo gesto…”
Tutti in silenzio, nessuno ha il coraggio di parlare. Il dolore si esprime negli sguardi, nelle lacrime che sgorgano sotto gli occhiali neri e nei fazzoletti che ormai faticano a contenerle. Il dolore è negli occhi vuoti della figlia Alice e nel pianto di Noemi, la piccola di casa, le cui urla strazianti fanno sgorgare lacrime anche ai presenti in chiesa. L’unico a trovare il coraggio di parlare è Wolfang Ullrich, presidente di Audi Sport. Pensava di reggere all’emozione il gigante austriaco. Davanti al microfono, quasi a volersi scusare con tutti, esordisce dicendo: “L’ho portato io all’ Audi, nel ’ 98…” Non sapeva ancora con certezza quale fosse la causa che aveva innescato il tremendo cappottamento di Michele Alboreto al Lausitzring, tre giorni prima, mentre testava la R8 per la 24h di Le Mans, ma sembrava ormai certo un guasto meccanico. Dopo quella frase, un momento di silenzio in cui Ullrich prova a far scendere il groppo in gola. Finito il discorso, una volta sceso dall’altare, cede e si abbandona alle lacrime.
Mentre il feretro si avvicina all’uscita della chiesa, un tifoso riesce a stenderci sopra una bandiera del Cavallino Rampante, come avviene per i militari con il tricolore. All’esterno della chiesa, le corone di chi non è riuscito ad essere presente fisicamente fanno da cornice alla chiesa. Ci sono quella di Schumacher e di Berger, quella della GES e quella dell’Audi, oltre ad un’altra trentina.
Ha provato ad andarsene da solo, forse per pudore, in un luogo della pista dove quasi nessuno poteva vederlo, nello stesso giorno in cui ottenne il primo podio in Formula 1, esattamente diciannove anni prima. Anche quella volta lo ottenne in solitaria, perché il mondo era concentrato sulla lotta tra Pironi e Villeneuve, senza considerare il piccolo miracolo che stava facendo quel ventiseienne al volante della Tyrrell.
A Basiglio, ora, il silenzio lascia spazio ad un applauso scrosciante che invade le vie paese. Quel giorno, non servivano parole per Alboreto, era necessario un applauso, lungo quanto la sua carriera e forte come le emozioni che ha suscitato in tutti gli appassionati di questo fantastico sport.
Esattamente venti anni fa, ci lasciava Michele Alboreto, uno degli uomini più puri che abbiano calcato le piste del mondiale e vestito la tuta Rossa.