Ha vinto un solo titolo mondiale, nel 2009, ma per Jenson Button è stato abbastanza per coronare il più grande sogno suo e di suo padre.
La passione per il Motorsport, condivisa amorevolmente con suo padre John, ha caratterizzato la lunga carriera del britannico Jenson Button. Con la conquista del titolo iridato del 2009, si perfeziona per entrambi il coronamento di un sogno.
Sono cinque i piloti che hanno disputato più di 300 Gran Premi di Formula 1. Con Rubens Barrichello, Kimi Raikkonen, Fernando Alonso e Michael Schumacher, c’è anche Jenson Button. Tra loro, solo Barrichello non si è laureato Campione. Button ha accumulato diciassette stagioni complete nella massima serie, più una presenza nel 2018, a Monte-Carlo, per sostituire Alonso in McLaren.
Jenson era un bambino timido, nervoso, imbarazzato, spesso in disparte. Era il più piccolo, con tre sorelle più grandi. Suo padre era un pilota di rally e suo figlio ha iniziato a frequentare il mondo delle corse molto presto.
Ha sette anni quando i suoi genitori si separano e John, quando arriva Natale, gli regala un kart. “Il kart è stato il mio sfogo, un modo per testare i miei limiti e allargarli sempre di più. È stato allora che ho iniziato a sognare la Formula 1. Anche se fino a 12 anni non l’ho detto a nessuno: temevo di esser preso in giro”.
Per trovare il denaro sufficiente per farlo correre, John vendeva tutto ciò che possedeva, anche il suo concessionario d’auto, per aprire un’attività dove costruiva motori, per il kart di suo figlio ed altri ragazzi, tra cui un certo Lewis Hamilton. Erano i tempi che, pur di far correre Jenson, all’occorrenza suo padre “stringeva la cinghia”. John era il suo mentore. Appostato lungo i circuiti, gli urlava istruzioni. Lo allenava, gli ha insegnato ad essere regolare, preciso, corretto. Senza mai essere invadente, senza mai creargli pressioni. Una presenza positiva, una guida competente ed affettuosa.
Sempre seguito da suo padre, Jenson Button arriva in Formula 1. Con Williams nel 2000, nel 2001 è in Benetton, che nel 2002 diventa Renault. Nel 2003 passa alla BAR (British American Racing) e nel 2004 sale svariate volte sul podio concludendo la stagione terzo. Nel 2005 è ancora BAR, poi vive tre stagioni con Honda, che chiude i battenti al termine del 2008 vendendo tutto a Ross Brawn. Il progettista e stratega ex Ferrari, rinomina il team Brawn GP: conosce la monoposto che Honda aveva in cantiere, sa che può essere vincente, la motorizza Mercedes e non sbaglia. Nel 2009 i suoi piloti, Jenson Button e Rubens Barrichello, possono beneficiarne. Button è ormai maturo, tatticamente valido: vince sei gare sulle prime sette. La mancanza di fondi, però, ferma lo sviluppo della vettura e Jenson deve correre in difesa: inizialmente mantiene il controllo. Ha una guida fluida, pulita, sarebbe voluto diventare come “Alain Prost”. Sfrutta al meglio il materiale a sua disposizione. Ma ad ottobre, dopo il Gran Premio del Giappone, concluso in ottava posizione, si scoraggia. Il suo compagno di squadra Barrichello lo segue in classifica a 14 punti ma Sebastian Vettel, che ha vinto la corsa con la Red Bull, può seriamente insidiare la sua scalata al titolo: la sua Brawn GP ha perso l’imbattibilità di inizio stagione.
Prima del Gran Premio a Interlagos si unisce a suo padre in un drink al bar dell’hotel. “Papà, devo vincerlo questo fine settimana”, gli dice. John, con un sorriso, gli risponde: “Andrà tutto bene, Jense”.
Quella notte sognava di vincere il Mondiale, ma al risveglio si rendeva conto che non era così. L’importante era portare a termine un Gran Premio accorto, con l’obbiettivo di conquistare qualche punto. Si qualifica quattordicesimo, davanti a Vettel, sedicesimo. Barrichello conquista la pole. In Brasile il tifo è tutto per il beniamino brasiliano, per Jenson tanti fischi. L’esito della gara non è scontato: Vettel lo supera, poi Webber con la Red Bull scavalca Barrichello, Kubica con la Sauber va a prendersi la seconda posizione.
La McLaren di Lewis Hamilton recupera. Barrichello ha un problema e perde piazzamenti. Gli ultimi giri non riservano sorprese: vince Webber, seguito da Kubica e Hamilton. Quarto Vettel che precede Button. Jenson è Campione del Mondo! Dal muretto la sua squadra lo applaude. Lui, emozionato, canta a squarciagola il ritornello di una delle canzoni più famose dei Queen: “We are the champions, my friends!”.
Sceso dalla macchina, viene applaudito dagli appassionati, anche dai tifosi brasiliani. Poi vede suo papà, lì, con la sua camicia rosa. Lo raggiunge di corsa. Si stringono in un forte abbraccio. Ancora una volta. Ma stavolta la gioia è più grande: il loro viaggio insieme li aveva portati lì, al titolo iridato.
Quando, nel Gennaio del 2014, Jenson perderà suo padre, inizierà a perdere la voglia e le motivazioni per continuare a correre. “Le corse non sono state più le stesse”, scriverà. Suo padre sembrava sempre che si divertisse, ed era contagioso. Senza di lui, per Jenson, non sarà mai più la stessa cosa.
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