Più una LMP1 stradale o più una monoposto di Formula 1 con la targa? È questo il grande quesito che ci si pone quando si osservano le forme della biposto britannica. E la risposta non è così scontata come sembra.

Sin dal­la pre­sen­tazione del prim­is­si­mo pro­totipo sta­ti­co, all’epoca anco­ra pri­vo di interni e di un nome diver­so da una sigla che non fos­se AM-RB 001, la Valkyrie ha fat­to sem­pre par­lare di se per le sue forme estreme, fun­zion­ali e asso­lu­ta­mente inedite. Mai pri­ma d’ora, infat­ti, si era vista una vet­tura stradale tan­to estrema e, soprat­tut­to, con­cettual­mente inno­v­a­ti­va e com­ple­ta­mente fuori dagli sche­mi, anche se, d’altronde, questi sono alcu­ni dei ris­volti con cui si deve fare i con­ti quan­do a impugnare la mati­ta diven­ta un cer­to Adri­an Newey, ovvero il geniale prog­et­tista di For­mu­la 1 fau­tore di alcu­ni dei più gran­di suc­ces­si nel­la sto­ria dei diver­si marchi a cui ha presta­to il pro­prio estro.Partendo dal prin­ci­pio, la hyper­car di casa Aston Mar­tin, frut­to del­la stret­ta col­lab­o­razione tra Red Bull Rac­ing, nonché la sua cos­to­la tec­no­log­i­ca, la Red Bull Advanced Tech­nolo­gies, e il costrut­tore di Gay­don, nasce da un’idea che Newey ha svilup­pa­to su car­ta nel 2014 e che prevede­va, sin dal prim­is­si­mo momen­to, l’adozione di tec­nolo­gie tipiche del mon­do del­la For­mu­la 1 e che è sta­ta, da subito, svilup­pa­ta attorno ad un motore aspi­ra­to a dod­i­ci cilin­dri a V, in quan­to questo pre­sen­ta­va pres­s­ap­poco lo stes­so peso di un sei cilin­dri sovral­i­men­ta­to, a cui si som­ma­va l’enorme van­tag­gio derivante dal­la man­ca­ta adozione dei sis­te­mi di raf­fred­da­men­to nec­es­sari a con­trol­lare le tem­per­a­ture del propul­sore, del tur­bo­com­pres­sore e, dunque, dei gas di scari­co che sono des­ti­nati a fluire attra­ver­so esso. Fis­sati tali con­cetti di base, l’ingegnere inglese si è appresta­to a definire alcu­ni para­metri di base poi ritrovati anche sul­la ver­sione di pro­duzione, come la sedu­ta bas­sa e avvol­gente, defini­ta “a gus­cio d’aragosta” in quan­to capace di aderire a tut­ti i pun­ti del­la schiena e del baci­no, nonché per la rotazione di due gra­di del­la stes­sa ver­so il cen­tro del­la vet­tura, com­pi­u­ta al fine di ridurre la sezione frontale del vei­co­lo, nonché gli ingom­bri lat­er­ali del­la vas­ca cen­trale del telaio, a tut­to ben­efi­cio del­la riduzione del­la resisten­za all’avanzamento. Sta­bil­i­ti i cris­mi di base, una pic­co­la squadra di tec­ni­ci, tra cui si con­tano due model­la­tori di super­fi­ci, un ingeg­nere respon­s­abile del design mec­ca­ni­co, un ingeg­nere delle sim­u­lazioni e un ingeg­nere del CFD, è sta­ta in gra­do di estrarre i pri­mi para­metri utili a definire il poten­ziale di ques­ta vet­tura, nel suo pic­co­lo giun­ta ad uno sta­dio di stu­dio di per se par­ti­co­lar­mente avan­za­to. Al fine di dare con­ti­nu­ità a quel­la che, ormai non solo su car­ta, si pre­sen­ta­va come un’idea vin­cente, Red Bull ha riv­olto lo sguar­do ver­so Aston Mar­tin, in cui ha trova­to il part­ner ide­ale in gra­do di imbel­lire e con­cretiz­zare quel che già era sta­to svilup­pa­to. Una vol­ta sta­bil­i­ti i con­tat­ti, è sta­ta effet­tua­ta una sor­ta di divi­sione del­la vet­tura in due par­ti, che pos­si­amo iden­ti­fi­care con gli appella­tivi di “top body” e “low­er body”, facil­i­tan­do di gran lun­ga il lavoro che i due staff incar­i­cati sareb­bero andati a com­piere sulle rispet­tive par­ti asseg­nate: del­la pri­ma, se ne sarebbe occu­pa­ta diret­ta­mente Aston Mar­tin che, con la gui­da di Marek Reich­man, respon­s­abile del­lo stile di Gay­don, avrebbe avu­to la mag­gior lib­ertà cre­ati­va sul­la stes­sa; del­la sec­on­da, invece, se ne occu­pano Newey & Co., in quan­to sogget­ta ad una impre­scindibile atten­zione ingeg­ner­is­ti­ca nec­es­saria a sod­dis­fare i req­ui­si­ti tec­ni­ci di base che cor­rispon­dono uni­ca­mente ad un liv­el­lo di cari­co aero­d­i­nam­i­co stra­or­di­nar­i­a­mente ele­va­to per una vet­tura stradale. Nat­u­ral­mente, l’integrazione tra i due staff ha per­me­s­so di plas­mare cias­cu­na parte in fun­zione dell’altra, sen­za dimen­ti­care il con­cet­to fon­dante sec­on­do cui, al fine di real­iz­zare un prodot­to asso­lu­ta­mente uni­co e com­ple­to, for­ma e fun­zione devono andare per­fet­ta­mente a braccetto.

Il risul­ta­to finale è una vet­tura che fonde, in un’unica for­ma, le ani­me di due mon­di molto diver­si tra loro: la For­mu­la 1 e l’Endurance. A guardar­la bene, infat­ti, la Valkyrie appare quale per­fet­ta amal­ga­ma tra le due mas­sime serie auto­mo­bilis­tiche del mon­do motoris­ti­co e tut­to ciò risul­ta ancor più vero se si fa fede, anco­ra una vol­ta, alla divi­sione in “gus­ci” sec­on­do la prospet­ti­va prece­den­te­mente descrit­ta, sul­la base del­la quale la porzione supe­ri­ore si svilup­pa seguen­do le clas­siche forme di una LMP1, men­tre quel­la infe­ri­ore si pre­sen­ta quale pura appli­cazione dei con­cetti che regolano la prog­et­tazione di una mono­pos­to di For­mu­la 1 vera e pro­pria. Ed è pro­prio qui che traspare tut­ta la grandez­za di questo stra­or­di­nario prog­et­to. Unire tra loro due mon­di con­cettual­mente dis­tan­ti tra loro è, tan­to per ragioni empiriche quan­to tec­niche, un’operazione qua­si impos­si­bile da com­piere, se non altro per la natu­ra stes­sa delle con­fig­u­razioni delle due tipolo­gie di vet­ture, che si dif­feren­ziano per un det­taglio, che pic­co­lo non è, come la pre­sen­za o meno di un sec­on­do sedile, capace di deter­minare a monte l’intera resa flu­ido­d­i­nam­i­ca del­la vet­tura in fase di pro­va in gal­le­ria del ven­to o al CFD. Più pre­cisa­mente, come ebbe modo di sco­prire lo stes­so Nor­bert Singer sug­li innu­merevoli mod­el­li in scala di quel­la che sarebbe diven­ta­ta la Porsche 956, le vet­ture sport pre­sen­tano una canal­iz­zazione del flus­so com­ple­ta­mente dif­fer­ente rispet­to a quel­la di una vet­tura tipo For­mu­la, in quan­to, nelle prime, questo ali­men­ta il dif­fu­sore pos­te­ri­ore giun­gen­do preva­len­te­mente dalle sezioni lat­er­ali anti­s­tan­ti le ruote pos­te­ri­ori; al con­trario, una vet­tura mono­pos­to a ruote scop­erte riceve la mag­gior parte del flus­so utile da quel­lo che investe l’ala ante­ri­ore, che deter­mi­na, così, l’andamento del­lo stes­so ver­so il pos­te­ri­ore e il rel­a­ti­vo estrat­tore. Questo sig­nifi­ca che, nel caso di una mod­er­na LMP1, la con­fig­u­razione prescelta prevede un trit­ti­co del tipo dif­fu­sore (o splitter)-fondo-estrattore, men­tre una For­mu­la 1 neces­si­ta di un alet­tone (gen­er­a­tore di vortice)-fondo- estrat­tore, con prin­cipi di fun­zion­a­men­to che, come spie­ga­to poc’anzi, si pre­sen­tano qua­si agli antipo­di. E, nel­la sua immen­sa saggez­za, Adri­an Newey, è rius­ci­to ad adottare la con­fig­u­razione che più andrebbe ad addirsi ad una vet­tura del­la mas­si­ma serie a ruote scop­erte, piut­tosto che ad una del WEC, con risul­tati sem­plice­mente sbalordi­tivi, resi pos­si­bili dal per­fet­to fun­zion­a­men­to con­giun­to di dis­pos­i­tivi dis­eg­nati a rego­la d’arte. La Valkyrie si con­trad­dis­tingue subito per un vis­toso alet­tone ante­ri­ore in pieno stile Y250, ovvero il medes­i­mo adot­ta­to in For­mu­la 1, che gen­era un grosso ed ener­gi­co vor­tice che fa il suo ingres­so in due canali, sep­a­rati dal­la porzione infe­ri­ore del­la cel­lu­la abi­ta­ti­va, che funge anche da chiglia dota­ta di due ulte­ri­ori pro­fili sot­to la sezione ante­ri­ore deforma­bile, che assumono un anda­men­to curvi­li­neo molto sim­i­le, se non addirit­tura iden­ti­co, a quel­lo delle future mono­pos­to 2022. Sim­ili sono anche le strozze che ne carat­ter­iz­zano la for­ma, che finisce con lo sfo­cia­re all’interno di un grande dif­fu­sore dal­la super­fi­cie mul­ti-sezione che per­me­tte di aumentare, gra­zie ad una ulte­ri­ore vari­azione delle sezioni stesse, il rap­por­to d’espansione dell’aria, generan­do un cari­co ancor più ele­va­to rispet­to a quan­to non si otter­rebbe con un nor­male, ma pur sem­pre ripi­do, anda­men­to ret­ti­li­neo delle pareti lat­er­ali. Gra­zie ad un fon­do così effi­cace ed effi­ciente, la Valkyrie richiede uni­ca­mente la pre­sen­za aggiun­ti­va di un alet­tone pos­te­ri­ore a due pro­fili di pic­cole dimen­sioni com­p­lessive, che, gra­zie all’azione com­bi­na­ta con quel­la degli ele­men­ti appe­na descrit­ti, dovrebbe per­me­t­tere il rag­giung­i­men­to di un cari­co aero­d­i­nam­i­co prossi­mo ai 1800 Kg all’approssimarsi del­la veloc­ità mas­si­ma del­la vettura.

Numeri incred­i­bili per un’auto com­p­lessa ma stra­or­di­nar­i­a­mente lin­eare nel­la sua ese­cuzione com­p­lessi­va, frut­to di ingeg­no e tal­en­to non comuni.

 

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