Non sembra destinata a cadere nel dimenticatoio la querelle che vede protagonisti Max Verstappen e la Mongolia, giunta adesso di fronte al Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale che si occupa di sorvegliare il rispetto della Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale dell’ONU.
Facciamo un passo indietro. La diatriba tra il pilota olandese e l’associazione benefica “Mongol Identity” inizia nel 2017, quando Verstappen apostrofò con il termine “mongolo” il commissario di gara Gary Connolly che lo aveva penalizzato a causa di un sorpasso giudicato non regolamentare ai danni di Raikkonen. Nonostante le scuse mai arrivate, la questione sembrava essersi chiusa con l’associazione tranquillizzata dalla spiegazione secondo cui l’utilizzo del termine era ascrivibile ad un momento di particolare nervosismo del pilota, che ricordiamo era stato retrocesso dalla terza alla quarta posizione. Decisamente più serio sembra invece il secondo atto della vicenda, iniziato dopo la seconda sessione di prove del venerdì di Portimao, in cui Verstappen, in un team radio andato in onda, ha nuovamente utilizzato il termine “mongolo” nei confronti di Lance Stroll, dopo un contatto in pista. Ancora una volta il linguaggio utilizzato dal pilota olandese non è sfuggito alla “Mongol Identity”, che in una lettera aperta, si è detta molto delusa dalla infelice scelta di parole dell’olandese chiedendo le scuse ufficiali. A far precipitare la situazione, però, sarebbero state le parole dello stesso Verstappen che anche a freddo, a precisa domanda, avrebbe risposto che non è un suo problema se qualcuno si sente offeso da ciò che dice. Così se inizialmente Horner aveva provato a minimizzare l’accaduto, è toccato ad Helmut Marko condannare con forza l’episodio, probabilmente informato del clamore che aveva suscitato il team radio prima e la netta presa di posizione del pilota dopo. Nonostante la parziale ammissione di colpa di Verstappen durante il week-end di Imola, in cui ha dichiarato che le sue parole non state piacevoli e di essere pronto a migliorare in futuro, la reiterazione della condotta e la mancanza di scuse, tuttavia, non deve aver fatto particolarmente piacere neppure nei palazzi governativi di Ulan Bator (capitale della Mongolia), causando un vero e proprio incidente diplomatico.
Diversamente dal 2017, difatti, stavolta a scendere in campo è stato direttamente il governo della Mongolia tramite il proprio ambasciatore e rappresentante presso l’ONU, Lundeg Purevsuren, che si è rivolto al “Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale”. Il documento ufficiale di protesta è stato inviato anche a Tendayi Achiume, relatore delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di razzismo, oltre che al presidente della FIA Jean Todt.
Nella lettera scritta da Purevsuren si legge:
“È ovvio che né Verstappen né Red Bull abbiano imparato la lezione del 2017, insistendo sul fatto che non sia un loro problema se qualcuno sia rimasto offeso per causa loro. Sfortunatamente la mancanza di una risposta adeguata del team ha un effetto negativo per la loro immagine. Ricordando la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 1965 e i principi guida su imprese e diritti umani del 2011, in particolare nei suoi articoli 11 e 15, chiedo il vostro sostegno contro Verstappen e Red Bull Racing. È inaccettabile che abbiano ripetutamente usato un linguaggio razzista. Al fine di prevenire il ripetersi di tale comportamento non etico nello sport chiedo il vostro sostegno”.
A prescindere da come si concluderà la questione, a Red Bull, Liberty Media ed i vari sponsor non farà certo piacere il clamore sollevato dal comportamento dell’olandese, specialmente in un momento storico particolare in cui fondazioni come “We Race as One” sono particolarmente agguerrite nella lotta contro discriminazioni e razzismo. Staremo a vedere se Mad Max, anzi Bad Max, sarà costretto questa volta a fare un passo indietro.