Con sette titoli iridati, di cui cinque con la Ferrari, è l’artefice di una delle ere più emozionanti che la Formula 1 abbia mai vissuto. Dalla sua ossessione per Ayrton Senna, prima idolo e poi avversario, al suo esordio nella massima serie, fino all’epilogo di una carriera indimenticabile: questa è la storia di Michael Schumacher.

Chi, come me, rien­tra in quel­la gen­er­azione cresci­u­ta negli anni ’90, non può non riconoscere a lui il mer­i­to di esser­si avvi­c­i­nati, appas­sion­ati, o sem­plice­mente infor­mati sul mon­do del­la For­mu­la 1.

Nel 2018, Maranel­lo ded­i­ca parte del suo museo alle imp­rese, alle battaglie, alle lacrime di gioia e ai tro­fei di Michael Schu­mach­er, per cel­e­brare i suoi 50 anni. Un ango­lo qua­si nascos­to, immer­so tra l’esposizione di un con­tin­uo stu­pore di vet­ture, avvolto dal velo di sto­ria di quel mar­chio che avrebbe reso il tedesco leggen­da tra leggende. Al momen­to, la più vin­cente di tutte.

La mostra “Michael 50” accoglie­va disc­re­ta­mente i suoi vis­i­ta­tori, entran­do in pun­ta di pie­di nei loro cuori appas­sion­ati ed emozionati con un leg­gero antipas­to di quel­lo che si sarebbe riv­e­la­to un vero e pro­prio pran­zo con degus­tazione di emozioni. Io, tra quelle mura, mi sen­ti­vo come spet­ta­trice di un film, pronta ad assis­tere a qual­si­asi colpo di sce­na. E così è sta­to. Ecco­la: l’entrata che con­duce alla stan­za delle mer­av­iglie. A rapire la vista è un ven­taglio di rosse, una per ogni sta­gione di Schu­mi alla Fer­rari, così maestose, così illu­mi­nate. Sopra di esse, uno scor­rere con­tin­uo delle immag­i­ni più belle del tedesco, che qua­si non sem­bra­vano così lon­tane. Mi las­cio alle spalle l’arena for­ma­ta dalle mono­pos­to e lo sce­nario cam­bia: mod­el­li­ni e caschi dei cam­pi­oni iri­dati del Cav­alli­no, da Ascari a Raikko­nen, accom­pa­g­nati da un sof­fit­to col­mo di trofei.

La musi­ca dei motori in sot­to­fon­do e quel con­trasto tra glo­ria e mito, tra leggen­da e sper­an­za, mi ave­vano pro­fon­da­mente emozion­a­to. Di fronte a ciò che vede­vo e che prova­vo, la frase “una vol­ta che qual­cosa diven­ta una pas­sione, la moti­vazione risiede lì” con­tin­u­a­va a riem­pir­mi i pensieri.

Per­ché per Schu­mi la sua pas­sione per motori e veloc­ità era tut­ta la sua vita. Sin da ragazz­i­no, ave­va così tan­to in tes­ta solo kart e curve dei cir­cuiti, che a scuo­la non rius­ci­va a con­cen­trar­si. “Pen­sa chiara­mente ad altro”, dice­vano i suoi inseg­nan­ti, per lui cor­rere era l’esperienza e l’emozione più bel­la ed elet­triz­zante di tutte, arrivare dov’era arriva­to il suo ido­lo Ayr­ton Sen­na era il suo più grande sogno.

Entra in For­mu­la 1 nel­la fine dell’estate del 1991. La Jor­dan, improvvisa­mente si tro­va sen­za il suo pilota, Bertrand Gachot, arresta­to dal­la polizia inglese con l’accusa di aver dato il via ad una ris­sa per le strade di Lon­dra. Eddie Jor­dan, dis­per­ata­mente alla ricer­ca di un pilota per l’imminente Gran Pre­mio del Bel­gio, decide di affi­dare le sue sper­anze al ven­tiduenne tedesco dota­to di un man­ag­er, Willi Weber, davvero molto con­vin­cente. Il sign­or Jor­dan era decisa­mente pre­oc­cu­pa­to: man­dare allo sbaraglio un prin­cipi­ante esor­di­ente in un cir­cuito come quel­lo di Spa-Fran­cor­champs, pote­va essere un azzar­do peri­coloso. Sfrut­tan­do l’arte del buon ven­di­tore, Weber lo ras­si­cu­ra, dicen­dogli che il ragaz­zo era prati­co del­la pista, cosa che invece non era asso­lu­ta­mente vera. Una bugia a fin di bene. Schu­mi non ave­va mai guida­to un’auto da cor­sa nelle Ardenne ed era ter­ror­iz­za­to. Inizia, allo­ra, a stu­di­are il cir­cuito pez­zo per pez­zo gra­zie al noleg­gio di una bici­clet­ta. Alla vig­ilia del­la gara sem­bra­va cari­co e sicuro di sé, soprat­tut­to dopo le dichiarazioni in cui osten­ta­va una pre­oc­cu­pante indif­feren­za. Eppure, quel­la, per chi conosce­va bene Michael, non era altro che il suo modo per esor­ciz­zare una ten­sione che lo sta­va lenta­mente divo­ran­do. Al solo pen­siero di piaz­zarsi nel­la stes­sa griglia di Prost, Piquet o Sen­na, gli trema­vano le gambe. E infat­ti, tut­ta l’agitazione che fino a quel momen­to ave­va mascher­a­to viene fuori pro­prio il giorno del­la cor­sa, su quel­la griglia.

Al via, appe­na parte, bru­cia la frizione del­la sua Jor­dan. “Una car­ri­era stron­ca­ta sul nascere”, avrà pen­sato qual­cuno. E invece, una gui­da eccezionale in qual­i­fi­ca che val­e­va la set­ti­ma piaz­zo­la, dietro i più gran­di e davan­ti a tut­ti gli altri, ave­va fat­to inten­dere che nelle vene di quel gio­van­ot­to di Ker­pen scor­re­va del grande talento.

Poco pri­ma del Gran Pre­mio d’Italia si viene a sapere che Schu­mach­er avrebbe affi­an­ca­to Piquet alla Benet­ton, andan­do a sos­ti­tuire Rober­to Moreno, caro ami­co oltre che col­le­ga di Sen­na. L’istinto sug­gerisce al qua­si tre volte irida­to brasil­iano di non accogliere felice­mente quel ragaz­zot­to, dimen­ti­can­do che anche lui agli inizi sarebbe sta­to dis­pos­to a tut­to pur di far parte del­la cat­e­go­ria dei gran­di. Ma, come ammet­terà in una con­feren­za stam­pa, Sen­na non digerisce il trat­ta­men­to ris­er­va­to a Moreno a favore del neoar­riva­to. Evi­den­te­mente ave­va intrav­is­to un pilota bra­vo e minac­cioso al tem­po stes­so. Per questo, forse, non cam­bia atteggia­men­to quan­do Schu­mi cer­ca di incon­trar­lo. Il ven­erdì di Mon­za, Sen­na è a cena all’hotel Vil­la d’Este sul lago di Como, quan­do un cameriere lo avvisa che qual­cuno, speci­f­i­can­dosi col­le­ga, desider­a­va incon­trar­lo. L’incontro tra i due è molto breve. Da una parte, uno Schu­mach­er emozion­a­to, dall’altra un Sen­na che non vuole perder tem­po: “Sei sem­pre sta­to il mio pun­to di rifer­i­men­to, sei l’uomo che ammiro di più al mon­do, ho deciso di diventare pilota dopo aver vis­to cosa rius­civi a fare con un kart”. Una dichiarazione d’amore sen­za rispos­ta, solo qualche frase di cir­costan­za e un con­ge­do sbrigativo.

Da quel momen­to, tra i due ci sarà rival­ità asso­lu­ta. L’allievo sfiderà il mae­stro, spes­so superan­do­lo. Michael è un uomo com­ple­ta­mente immer­so nel­la sua pas­sione, tut­to pane e pistoni.

Ama la sua famiglia, è un mar­i­to affet­tu­oso, un padre pre­muroso. Gli piace gio­care a cal­cio e scia­re. Le altre cose del Mon­do gli inter­es­sano poco o niente. Si prepara al mas­si­mo per affrontare al meglio l’asfalto, sia men­tal­mente che fisi­ca­mente. Riesce a tenere alta la con­cen­trazione e può cor­rere un intero Grand Prix a rit­mi da qual­i­fi­ca. Ha una notev­ole sen­si­bil­ità di gui­da e, pur di vin­cere, a volte si proi­et­ta anche oltre quei lim­i­ti, al dire il vero un po’ inde­fin­i­ti, del­la cor­ret­tez­za sporti­va. Michael Schu­mach­er non fa com­pli­men­ti, in gara non guar­da in fac­cia nes­suno, sia pure che si trat­ti di suo fratel­lo Ralf, di un cam­pi­one, dell’ultimo arriva­to. La sua meta è il gradi­no più alto del podio, sul tet­to del mondo.

La trage­dia che coin­vol­gerà Sen­na in quel ter­ri­bile 1° mag­gio 1994, seg­na indelebil­mente Schu­mach­er. Sia nel­la car­ri­era che nel carat­tere. Non andrà ai funer­ali e ques­ta scelta la rimpiangerà per tut­ta la vita. Dopo quel fine-set­ti­mana dis­grazi­a­to, si chiede se le corse avessero un sen­so e se sì, quale. Si dà una rispos­ta ripen­san­do alla sua esisten­za, total­mente ded­i­ca­ta a quat­tro ruote e all’asfalto con­fi­na­to dai cordoli.

Un des­ti­no bef­far­do, ha volu­to che il vero peri­co­lo lo incon­trasse fuori dal­la sua pas­sione, che lo ha incoro­na­to sette volte. Che gli ha per­me­s­so di riportare a Maranel­lo un mon­di­ale che man­ca­va da ven­tuno anni. Che gli ha fat­to affrontare sfide anche non vin­cen­ti, ma comunque mem­o­ra­bili. Che ci ha mostra­to l’egoismo del pilota, la sua cat­tive­ria ago­nis­ti­ca. Che ci ha regala­to il Cam­pi­onis­si­mo, l’indimenticabile Schu­mi. E così sarà. Per sem­pre.

 

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