Dopo il successo della Williams nel 1980 con Alan Jones Campione del Mondo, la stagione del 1981 vede vincere Nelson Piquet, il brasiliano che si aggiunge all’elenco degli eroi iridati in Formula 1.
Originario di Rio de Janeiro, Nelson Piquet ha conquistato tre titoli mondiali nel periodo centrale della sua quattordicenne presenza nella massima categoria: nell’81 e nell’83 con Brabham, nell’87 con Williams.
Irriverente, un po’ guascone, si prende gioco dei giornalisti (Ezio Zermiani docet) e di alcuni piloti. Spesso sorridente e con l’aria divertita, strizza l’occhio (e non solo) ad ogni bella ragazza, ma quando è al volante della sua monoposto è attento, preciso, determinato, calcolatore, furbo, tattico e veloce.
Non ama correre nei circuiti cittadini. “Guidare a Monte-Carlo” — dice “è come spingere una bicicletta nel salotto di casa”. Ha disputato 207 Gran Premi, vincendone uno ogni nove. Non ha mai vinto nel Principato di Monaco, ma ha trionfato tre volte ad Hockenheim, Monza e Montréal.
Nelson ha sempre amato gli sport pericolosi come sci nautico, moto, auto, con cui si sfidava con gli amici. Quando conquista il suo primo titolo iridato, dichiara che vincere un Mondiale non è importante: corre perché lo eccita superare la paura del rischio. E ha paura di farsi male, più che morire, perché non sopporta l’idea di dover soffrire.
Gira il mondo, ma non ama fare il turista. Quando all’inizio della sua carriera ha vissuto in Italia, ha visitato solo Novara e Vallelunga. Non è stato neppure a Roma. Ad un certo punto si è stabilito, in barca, a Monte-Carlo. Ama passare il tempo libero guardando film a ripetizione, anche di fila per tutta la notte, a volte fa un giro in barca con qualche amico. Insomma, relax assoluto. Forse troppo.
Non ama le feste e i ritrovi eleganti, men che meno nel Principato. E preferisce andare a mangiare in una trattoria italiana, dove “si mangia bene e si spende poco”. Il denaro non lo assilla, non fa il pilota perché si fanno soldi. Non investe neppure in pubbliche relazioni per guadagnare di più, con sponsor ed altro. Gli va bene così: “Il mio mestiere è fare il pilota, e sono soddisfatto di quello che guadagno”.
Non ama essere al centro dell’attenzione, non torna neppure in Brasile per festeggiare clamorosamente il suo titolo. Ma, a volte, sale all’onore delle cronache per la sua lingua “tagliente”, pensieri che non riesce a tacere e trasforma in parole che non lasciano indifferenti i destinatari. Tra loro, il connazionale Ayrton Senna, la Ferrari e Patrick Head, che nell’86 e nell’87 sarà il suo direttore tecnico in Williams, del quale dice: “Non crea molto, copia bene”. E nel Circus ha poche amicizie. Va d’accordo con quelli della Brabham, si frequenta solo con Jody Scheckter ed Eddie Cheever.
Ad Hockenheim, nell’82, prende a pugni Eliseo Salazar, “reo” di non avergli dato strada in una fase di doppiaggio che si concludeva con il fuoripista di entrambi. Piquet un giorno spiegherà che quella volta prese il via molto teso, a causa del grave incidente occorso a Didier Pironi durante le prove. L’ennesimo di una stagione già tristemente listata a lutto.
Da ragazzo giocava bene a tennis, ma non gioca con i suoi colleghi per non sfigurare. Aveva lasciato il tennis per il kart e correva con il cognome della mamma, per nascondersi al padre. Entra nelle grazie di Emerson Fittipaldi che lo porta in Europa, dove vince in Formula 3 battendo il record di vittorie di Jackie Stewart.
Era superstizioso: nella tuta metteva l’immaginetta di San Giorgio e un piccolo Crocefisso. Ma viveva col pensiero di doverseli portare sempre dietro. Il caso vuole che pose fine a questo “rito” proprio all’inizio della stagione che lo consacrerà per la prima volta Campione.
Nel ‘78 esordisce in Formula 1 ad Hockenheim con la Ensign, poi prosegue per tre gare con la McLaren e, all’ultima di campionato, a Montréal, è con la Brabham di Ecclestone. Un sodalizio che dura ben sette stagioni complete. Poi tre bienni: con Williams, da incorniciare con il suo sorpasso più bello all’Hungaroring su Senna, e con conquista del terzo Mondiale; con Lotus, senza troppa infamia né troppa lode; con Benetton, con cui trova due vittorie nel ‘90 e una nel ‘91, suo ultimo anno in Formula 1.