È il neozelandese Denis Hulme che, in quel mondo straordinario che non finirà mai di stupirci, nel 1967 riesce a conquistarsi un posto nell’albo d’oro del Campionato del Mondo. Se lo aggiudica meritatamente, quanto meno perché, da manovale del volante, primeggia nei confronti di gente come Brabham, Clark, Surtees, Hill, Stewart…le brillanti stelle del firmamento iridato.
Qualsiasi cosa gli si chiedesse sulla qualifica, sulla gara appena conclusa o su quella successiva, rispondeva sempre: “Bene, andrà tutto bene”. Se lo hanno chiamato “l’orso” è perché il suo comportamento, sin dall’inizio della sua carriera, si è dimostrato sempre rude e privo di ogni forma di comunicazione.
All’inizio della sua avventura motoristica, Denis Hulme, per poter correre nelle formule minori, fa gavetta come meccanico di Brabham, e “Black Jack” gli affida una Formula Junior “ufficiale”. È presto vittorioso. Pur di correre, oltre a pilotare, fa l’autista del camion, provvede alle iscrizioni, insomma fa tutto da solo. E fa comodo a Brabham, che nel 1964 se lo porta in Formula 2 come secondo pilota. Hulme conclude la stagione secondo dietro al caposquadra.
L’anno seguente “assaggia” la Formula 1 in sei gare, con l’esordio nel Principato di Monaco, seconda prova stagionale, dove conferma in gara l’ottavo posto conquistato in qualifica. A Clermont-Ferrand ottiene il miglior risultato annuale, concludendo quarto alle spalle di Clark, Stewart e Surtees. Nel 1966, è ufficialmente la seconda guida di Jack. Il ruolo di “spalla” gli si è cucito addosso come meglio non si può, e Brabham conquista il suo terzo titolo iridato.
L’aria che tira nei loro box è surreale, Black Jack è anch’egli un taciturno: tanti sguardi, poche parole. Nonostante tutto, i risultati arrivano. Nel 1967 Brabham potrebbe nuovamente vincere il Mondiale. Jim Clark è il più veloce, ma la sua Lotus in gara lo costringe più volte al ritiro. Si arriva all’ultima gara in Messico, con Brabham e il suo secondo in lizza per il titolo. Per il pilota-costruttore basterebbe il gradino argentato del podio, purché il suo compagno di squadra/dipendente resti fuori dai punti.
In qualifica, le due Brabham-Repco si guadagnano il quinto e il sesto posto sulla griglia, Hulme parte sesto. Al via, tutti i piloti si tuffano nel lungo rettilineo che porta alla prima staccata. Clark, partito dalla pole, a causa di un’esitazione viene sorpassato dalla Ferrari di Amon e dalla Lotus di Hill, che transita al comando al termine del primo giro. Brabham e Hulme sono rispettivamente quarto e ottavo.
In un paio di giri, Clark si riprende la testa. A un terzo di gara lo scozzese precede Amon, Brabham e Hulme, che segue “a vista” il suo caposquadra.
Al 63° dei 65 giri previsti, Amon si ferma senza benzina e Brabham si ritrova secondo. È la posizione sperata, quella che gli garantisce la conquista del suo terzo sigillo mondiale. Sempreché Hulme, che lo segue, obbedisca ai cosiddetti ordini di scuderia. La risposta del suo dipendente non si fa attendere: al penultimo giro fa registrare il suo miglior tempo in gara. Vince Clark, Brabham è secondo e Hulme conclude terzo, contro ogni logica del suo datore di lavoro.
Con la conquista dell’alloro iridato, l’“Orso” silenzioso sferra a Brabham una zampata più dolorosa di mille parole. E Brabham accusa il colpo. Va su tutte le furie e lo appieda. Hulme è tranquillo, piloterà per la squadra del suo amico e conterraneo Bruce McLaren. Dichiarerà: “Debbo molto a Jack Brabham ma guidare per la sua squadra è stata per me una continua frustrazione a causa della totale mancanza di comunicazione. Jack e Ron (Ron Tauranac, progettista ndr.) mi tenevano all’oscuro di tutto ed io all’inizio ci restai molto male. Pian piano mi ci sono abituato, ma l’offerta della McLaren mi dà la possibilità di andare a star meglio”.
A testa alta, da vero Campione. In fin dei conti, quando cominciò a correre, guidava a piedi nudi.