La storia completa del folle progetto che avrebbe dovuto salvare il marchio MG: una supersportiva nata tra Modena e Birmingham, passando per San Francisco.
La nostra storia inizia nel 1996, al salone di Ginevra, quando Alejandro De Tomaso, proprietario dell’omonima casa automobilistica, presentava al mondo la Biguá. L’idea alla base del progetto era di Giordano Casarini che, due anni prima, fu impressionato dalla TVR Griffith. De Tomaso e Casarini erano amici storici e, quando il patron della casa modenese chiese all’allora direttore tecnico della Maserati cosa fare del marchio De Tomaso, quest’ultimo gli propose la costruzione di una vettura filosoficamente simile alla TVR. De Tomaso accettò. Il design fu affidato a Marcello Gandini, dalla cui penna nacquero alcune tra le più iconiche auto italiane, come la Lancia Stratos, l’Alfa Romeo Montreal e le Lamborghini Miura, Countach e Diablo. Alla kermesse svizzera, la famiglia De Tomaso cercava dei finanziatori che potessero far decollare il progetto. Ad interessarsi all’idea furono i fratelli Bruce e Jeff Qvale. Quello di Qvale è un nome noto sia ad Alejandro De Tomaso sia a Giordano Casarini, dato che il padre dei due fratelli, Kjell, fu uno dei pionieri dell’importazione di auto straniere in America cominciando nel 1947 con le auto MG, commercializzando poi la De Tomaso Mangusta e, successivamente, anche il marchio Maserati. Nel 1997 nacque la Qvale Modena SpA, incaricata di produrre, nella città emiliana, la vettura ideata da Casarini che, in seguito ad accordi commerciali tra i due partner, fu denominata De Tomaso Mangusta. Il motore scelto fu un V8 aspirato di origine Ford, collocato in posizione centrale anteriore, abbinato ad un cambio BorgWarner a 5 marce (era possibile ordinarla anche con un cambio automatico a 4 velocità). Trazione rigorosamente posteriore. La progettazione del telaio fu affidata a Enrique Scalabroni, vecchia conoscenza della Formula 1 che lavorò per Dallara, Williams, Lotus e Ferrari, dove fu capo progettista per telaio e aerodinamica. Molto presto nacquero però dei dissidi tra De Tomaso e Qvale, principalmente legati a problemi di licenza e distribuzione, che portarono Bruce Qvale a decidere di commercializzare l’auto con il nome Qvale ponendo fine al rapporto di lavoro con il marchio modenese.

Le reazioni della stampa dopo il lancio della Mangusta furono positive: l’eccezionale telaio rendeva l’auto molto maneggevole mentre l’avveniristico roto-top destò scalpore per complessità e utilità, dato che permetteva all’auto di essere utilizzata in tre diverse configurazioni: coupè, targa e spider. Il particolare design tratteggiato dalla penna di Gandini, invece, divise l’opinione pubblica. L’auto non ebbe il successo sperato e il gruppo americano si trovò in seria difficoltà a mantenere in vita il progetto. Viste le scarsissime vendite della Mangusta in Europa (solo 18 furono le unità vendute nel vecchio continente), nell’estate del 2000 Bruce Qvale propose a Nick Stephenson, uno dei soci del Phoenix Consortium, un accordo per implementare la distribuzione dell’auto nel continente. Phoenix Consortium (o PVH, acronimo di Phoenix Venture Holdings Ltd) è un nome che ai più non dirà niente, ma all’inizio del nuovo millennio dominava i titoli delle testate automobilistiche britanniche. Questo perché, nel Maggio 2000, acquistò da BMW lo storico marchio MG Rover per una cifra da capogiro: 10 dollari. Il prezzo di una colazione da Starbucks. Stephenson e soci, compresa la qualità del progetto alla base della Qvale Mangusta, decisero di andare oltre un semplice accordo di distribuzione ed optarono per acquistare gli assets della divisione italiana della Qvale Automotive Group, con l’obiettivo di dar vita ad un’auto che avrebbe potuto rilanciare il marchio MG in Gran Bretagna e nel mondo. Pianale e motore rimasero gli stessi della Mangusta, ma l’estetica venne stravolta. L’obiettivo dei vertici del Phoenix Consortium era quello di creare un’auto che fosse inconfondibilmente MG dando, al contempo, un’anticipazione del futuro design del nuovo corso. Il compito fu affidato al capo designer di MG, Peter Stevens, lo stesso che disegnò la McLaren F1, la Lotus Esprit e la Jaguar XJR-15. Il primo frutto dell’opera di Stevens fu la X80, presentata al mondo al salone di Francoforte del 2001, solo tre mesi dopo l’ufficializzazione del passaggio di consegne tra Qvale ed MG Rover. L’auto destò un notevole interesse da parte della stampa che accolse favorevolmente il ritorno della casa britannica nel mondo delle GT sportive, ma non soddisfò completamente il suo artefice. Nel frattempo, PVH cambiò nuovamente progetti per l’ex Mangusta. Una gran turismo non bastava ai vertici MG, così decisero di passare il progetto alla neonata ala sportiva del gruppo, la MG Sports & Racing. L’obiettivo dichiarato divenne quello di creare una supercar che esprimesse tutto il potenziale di MG, entrando nell’élite dell’automobilismo. La MG XPower SV, così venne chiamata, fu presentata alla stampa il 22 Ottobre 2002 in occasione del British International Motor Show al NEC di Birmingham, lasciando tutti a bocca aperta.
“La X80 era destinata ad essere un’auto eccezionale. Ma nel Consiglio abbiamo realizzato che non era un passo avanti verso i confini di ciò che noi crediamo rappresenti il marchio MG. Ogni MG deve avere indipendenza spirituale, senso del rischio e del divertimento, rapporto qualità/prezzo ed estremo piacere di guida. Ciò che vi mostreremo è la mia visione di come un’estrema MG dovrebbe essere. Vedrete, “The car will aggress you!” come direbbe il nostro capo ingegnere, Giordano Casarini…”
Con queste parole, Peter Stevens spiega la sua nuova creatura. La definizione di Casarini calza a pennello per la neonata SV. Certo, l’inglese dell’Ingegnere è perfettibile, ma rende l’idea della reazione che si ha alla vista della vettura.
La XPower SV prende a schiaffi chi la osserva, e più si cercano angolazioni e dettagli per comprenderla, più il suo design mette al tappeto. La vista da ¾ anteriore è tutto ciò che non ti aspetti da un’auto di serie, partendo dai giganteschi passaruota, tanto sporgenti che le modelle li usavano come sedia durante la presentazione, passando per le spropositate prese d’aria sulla fiancata, fino alle enormi minigonne. Poi c’è il frontale esasperato, con il cofano che si allunga a dismisura per contenere il V8 aspirato di origine Ford da 4,6 litri che equipaggiava la Mustang SVT, la cui cavalleria “parte da 326 HP, ma i clienti potranno scegliere di quanta potenza disporre, fino a un massimo di 978 CV”, almeno secondo le parole di Peter Stevens nel discorso di presentazione alla stampa. La colonna portante dell’auto era rimasta quella della Qvale Mangusta. Il motore modulare Ford, capace di generare 410Nm di coppia, è abbinato allo stesso cambio manuale Tremec a 5 rapporti presente sulla Mustang. La versione di lancio della XPower SV era capace di raggiungere i 254 km/h di velocità massima, con uno scatto da 0 a 100 km/h coperto in 5,4 secondi. Le sospensioni prevedevano doppi bracci oscillanti sia all’anteriore che al posteriore, con barre antirollio da 25mm. I freni Brembo erano anch’essi trapiantati dal progetto Qvale, mentre per i cerchi l’opzione standard prevedeva degli OZ scomponibili da 18 pollici. La bilancia si fermava a 1540 kg, per merito della carrozzeria in fibra di carbonio, soluzione tramutata dalle stock car che correvano negli Stati Uniti. Per ridurre i costi, MG decise di prendere in prestito molte parti da altre auto: gli specchietti sono quelli della Rover 75 come le maniglie esterne delle portiere, mentre quelle interne vengono dalla Rover 45. Osservando bene l’anteriore dell’auto troverete anche qualcos’altro che vi sarà sicuramente familiare. I fari anteriori, infatti, sono quelli dalla Fiat Punto prima serie, mentre quelli posteriori sono presi in prestito dalla Fiat Coupè. Gli interni minimalisti prevedevano una strumentazione completamente digitale della Motec (anche se molti esemplari verranno poi prodotti con un cockpit analogico), mentre volante, pedaliera e sedili anatomici erano griffati Sparco. Un anno dopo il lancio, però, della XPower SV non c’è nessuna traccia. Nessun giornale ha mai testato l’auto, né sono presenti foto diverse da quelle scattate nel 2002 a Birmingham o nel 2003 al Salone dell’Auto di Ginevra, dove l’SV fece il suo debutto ufficiale allo stand MG Rover. L’unica apparizione fu una passerella al Goodwood Festival of Speed, guidata da Peter Stevens. Il 30 Ottobre 2003 MG annuncia che l’auto sarà acquistabile dal mese successivo al prezzo di 75000 sterline, poco meno del prezzo di listino della Porsche 911. Le vendite non decollano, la XPower SV non attrae il pubblico a causa del prezzo esagerato per un marchio come MG, di un design estremo e di un allestimento interno decisamente scarno. Nel 2004, per andare incontro ai gusti americani (fino a quel momento nessuna SV fu venduta nel nuovo continente), MG lancia la SV‑R. In questa nuova versione, il V8 Ford viene sapientemente modificato dal tuner Sean Hyland che incrementa la cilindrata a 5 litri, raggiungendo quota 410 CV e 510 Nm di coppia. Insieme al motore, vengono maggiorati anche i dischi freno, il comparto ruote e l’alettone posteriore. A richiesta, la SV‑R è disponibile anche con una trasmissione automatica a 4 rapporti. Il prezzo? 82950 sterline, poco meno di 95000 euro. L’auto aveva delle qualità notevoli, dato che dopo averla provata a Silverstone, l’ex pilota di Formula 1 Mark Blundell disse:
“Ho guidato molte delle migliori vetture sportive al mondo, e quest’auto non ha nulla da invidiare. Dal sound dello scarico alla precisione dello sterzo, la MG XPower SV ha tutto ciò che cerco in un’auto sportiva…”

Ma il pubblico non la pensava allo stesso modo. Gli ordini procedevano a rilento e la MG faticava a coprire gli enormi costi necessari alla messa in commercio del veicolo. Invece di desistere, i “Phoenix Four” (soprannome affibbiato dalla stampa britannica ai leader del Phoenix Consortium per i loro atteggiamenti da rockstar) decisero di rilanciare, con mosse fuori da ogni logica di mercato. Fu annunciata una versione da pista della vettura, denominata “Club sport” che non vide mai la luce. Al suo posto, MG decise di rispolverare l’accordo fatto nel 2002 con l’azienda americana Roush, specializzata in motori Ford, per la creazione della XPower SV‑S, dove S sta per Supercharger. Di fatto, si trattava di turbizzare il V8 Ford, ottenendo una potenza simile a quella della SV‑R, ma con costi di produzione minori. Non contenti, decisero di mettere a disposizione dei clienti che intendevano acquistare la SV‑S un kit al protossido di azoto, montato in fabbrica come accessorio originale e derivato direttamente dalla MG ZT‑T che a Bonneville, nel Settembre 2003, fece segnare la strabiliante velocità di 360,9 km/h, divenendo la station wagon più veloce del mondo. Il NOS avrebbe spinto la supersportiva britannica oltre la soglia dei 1000 CV. Il condizionale è d’obbligo, perché nessuna XPower SV‑S giunse alle reti di vendita ufficiali. A Longbridge, sede storica della MG, furono prodotte appena 4 unità per i test pre-produzione prima che, nell’Aprile 2005, il gruppo MG Rover entrasse in amministrazione controllata, cessando la produzione e smantellando la rete di vendita.

Molti esperti sostengono che il fallimento del progetto XPower abbia influito pesantemente sulla sorte del gruppo MG, e non si fa fatica a credergli, dato che il ciclo produttivo era costosissimo e fuori da ogni logica. Il telaio della XPower SV veniva costruito a Pievepelago, cittadina a sud di Modena, dalla Vaccari & Bosi, mentre la carrozzeria in fibra di carbonio prendeva vita a San Pietro Mosezzo, paesino di neanche 2000 anime in provincia di Novara, dove la Belco Avia metteva insieme oltre 3000 fogli di fibra di carbonio che gli venivano recapitati dalla britannica SP System. Telaio e carrozzeria (quest’ultima pesava soltanto 65Kg!) venivano poi spediti a Torino, dove la OPAC metteva insieme il tutto. La struttura completa ritornava poi a Modena dalla Vaccari & Bosi che si occupava del montaggio di tutto l’occorrente per renderla marciante, compresi motore e trasmissione, spediti in Italia dalla sede Ford di Detroit. L’auto, ormai completa ma ancora grezza, veniva quindi spedita al di là della manica, a Shilton, dove la XK Engeneering provvedeva alla verniciatura prima di portare l’auto al quartier generale della MG Sports & Racing di Birmingham per la fase finale della costruzione. Per un periodo, la MG Sports & Racing ebbe anche una sede distaccata a Modena che gli permetteva di supervisionare una parte di questo folle processo produttivo.
La freddezza dei numeri, ci permette di fotografare con chiarezza il fallimento del progetto. Le MG XPower SV prodotte in totale si stima siano 84. Le unità uscite complete e marcianti dai cancelli della fabbrica di Longbridge furono invece 64. Di questi esemplari, ben 13 erano ancora di proprietà della MG Sports & Racing Ltd al momento del fallimento dell’azienda, e furono messe all’asta nel 2008 dal liquidatore Wyles Hardy & Co. Tra quest’ultime, c’erano anche le uniche due SV‑S completate, e quattro SV‑R (finali di telaio: 606, 614, 616, 617) destinate al lancio del veicolo sul mercato italiano, previsto per il 2005. Purtroppo, la MG XPower SV non farà in tempo a godersi le curve dell’appennino modenese dove il suo eccezionale telaio prese vita. Non potrà mai sfilare per il centro di Torino, sfacciata ed egocentrica, mettendo in mostra la carrozzeria che in quella stessa città è stata assemblata. Non tornerà mai a godersi il panorama delle meravigliose coste salentine, su cui fece qualche rapido passaggio ai tempi dei test aerodinamici effettuati sul circuito di Nardò.
Forse, la follia del Phoenix Consortium meritava più fortuna. Forse il potenziale tecnico della XPower era degno di una storia a lieto fine. Forse, ma a me piace credere che sia stato un canto del cigno in pieno stile Morris Garages, dopo ottant’anni di storia passati sulle montagne russe.