È il 2016, quando intervisto Ezio Zermiani. Una figura storica in quel giornalismo italiano legato al mondo della Formula 1. È pronto a rispondere alle mie domande, consapevole che, fra queste, ve ne è una più emozionante delle altre. E, quella domanda, riguarda Ayrton Senna.
24 Gennaio 2016. Mancano circa tre mesi al grande giorno, la laurea in Filosofia e Comunicazione. Per la tesi, sfido la mia passione per la Formula 1 e decido di raccontarla in circa novanta pagine che dovrò essere in grado di discutere in soli dieci minuti.
L’argomento è “Formula 1: il linguaggio tecnico e il linguaggio narrativo nelle cronache italiane”. Un semplice elogio di come il giornalismo, nel nostro Paese, si sia evoluto insieme alla massima espressione delle corse automobilistiche non basta. Voglio intervistare anche chi, il lato mediatico della Formula 1, lo ha vissuto in prima persona. Tra i vari personaggi con cui riesco a mettermi in contatto c’è anche Ezio Zermiani. La sua invenzione dell’“inviato ai box”,contribuì a far vivere da vicino le emozioni pre, durante e post gara, a tutti gli appassionati seduti davanti alla televisione negli anni Ottanta e Novanta. Follemente innamorato della Formula 1 e del suo lavoro, si è reso immediatamente disponibile, senza celare la sua commozione al mio dirgli “Caro Ezio, vorrei mi raccontassi l’inizio della tua carriera, la nascita del Trio Primavera, il tuo punto di vista sull’attuale ruolo di un giornalista inviato per la Formula 1. E, soprattutto, la storia che hai vissuto il 1° Maggio del 1994”.
Carissima Beatrice,
Dobbiamo andare indietro nel tempo, agli inizi degli anni ’80, all’inizio di un biennio magico della Formula 1, per calarci in un mondo fantastico, contrassegnato da un’epoca d’oro difficilmente ripetibile.
Per un felicissimo insieme di concomitanze, si diedero appuntamento una serie di uomini, progettisti, team manager e piloti dotati di genialità, ardimento e personalità strabilianti: primo fra tutti, il grande Enzo Ferrari creatore di un mito, Mauro Forghieri, Gordon Murray, Ron Dennis, Frank Williams, Niki Lauda, Clay Regazzoni, Alain Prost, Elio De Angelis, Renè Arnoux, Michele Alboreto, Alessandro Nannini, Nelson Piquet, Riccardo Patrese, Jean Alesi, Michael Schumacher e tanti altri. Agli inizi di questa bellissima avventura, va detto che gli enti televisivi non erano molti, ed anche i giornalisti si riducevano ad un gruppetto di una ventina di persone. Cosa ben diversa da oggi, dove gli addetti ai lavori si contano a centinaia con l’evidente mancanza di tempo da parte dell’intervistato di turno da dedicare anche un minimo spazio ad ognuno di loro. Di conseguenza, ecco materializzarsi una selva di microfoni per formulare le stesse domande e ricevere le stesse risposte per tutti, sotto lo stretto controllo degli addetti stampa, pronti a rintuzzare domande scomode e risposte inappropriate.
Impensabile oggi, come ero solito fare, riuscire ad intervistare sulla griglia di partenza, a pochi secondi dal via, nella fase più emozionante e pericolosa dell’evento, piloti intenti allo scatto e sottoposti ad una concentrazione massima. Allora, le regole erano più lasche, i veri padroni del Circus erano i piloti che potevano gestire in prima persona i loro rapporti con i media. Loro e non altri decidevano che cosa fare e che cosa dire. Poi, pian piano, la valanga di soldi li ha imprigionati in riti che, invece di attenersi alla corsa, hanno più a che fare con le strategie dei consigli di amministrazione e l’andamento delle borse passibili di subire tracolli anche per una più piccola, ma inappropriata, considerazione personale. Ai piloti, ai tanto decantati cavalieri del rischio, hanno comprato l’anima. Oggi, tutto viaggia su binari ben fissati dentro e fuori la pista con scarsa possibilità di accendere emozioni o costruire leggende.
La mia caratteristica di intervistare i piloti sulla griglia di partenza nasce dopo il Gran Premio d’Austria, a Zeltweg, nel 1982. Elio De Angelis beffa, per pochi metri, sul traguardo del circuito della Stiria, Keke Rosberg, padre dell’attuale Nico.
La felicità è tale, che non ce la faccio ad attendere tutta la procedura della premiazione e la successiva conferenza stampa. Vedo una tuta da tecnico, la indosso, scavalco da dietro il podio ed arrivato alle spalle di Elio inizio l’intervista, fra la sua sorpresa e la montante rabbia degli organizzatori ai quali sto rovinando la cerimonia in Mondovisione.
È in quell’istante che Mario Poltronieri, dalla cabina di commento in diretta, esclamò: “Vediamo ‘Topolino’ Zermiani (le voluminose cuffie di allora assomigliavano effettivamente alle orecchie del personaggio disneyano. Il nomignolo mi è rimasto appiccicato da allora), che ha raggiunto e sta intervistando sul podio De Angelis”.
Due poliziotti mi sollevarono e mi scaraventarono giù dal palco. Terrorizzato, Elio si levò la corona d’alloro e cominciò a menare urlando “L’avete ammazzato, l’avete ammazzato!”. Fortunatamente, a quei tempi, l’altezza del podio di Zeltweg era la più bassa di tutti i Gran Premi. Circa quattro metri, le balle di paglia alla base fecero il resto. Elio mi raggiunse subito, e mi chiese quale regalo avrei voluto per quel rischio del quale si sentiva potenzialmente responsabile. Gli risposi con una richiesta che mi frullava da tempo nella testa: “Fatti intervistare sulla griglia di partenza a pochi minuti dal via”. Mi rispose ridendo: “Tutto qui? Ma io ti faccio aggrappare sull’airscope durante il giro di ricognizione se vuoi!”. Detto fatto.
Dopo le prime interviste, un altro pilota, Nelson Piquet, molto scaltro e veloce, oltre che in pista soprattutto fuori, aveva capito l’importanza del ritorno mediatico di quei momenti così carichi di pathos e si offrì di fare altrettanto, caricando però il colloquio con battute e siparietti che fecero epoca portando ‘l’audience’, già di per sé al picco di ascolto per i momenti più carichi di emozione nell’imminenza dello start, a livelli di 12 milioni di ascolto ed oltre.
Il “Trio Primavera”, così nominato solo dopo il traguardo dei settant’anni, si costituì quasi per caso.
Mario Poltronieri, alla fine della carriera come pilota, passò nel ruolo di collaudatore di prototipi alle dirette dipendenze di Carlo Abarth, famoso preparatore di autovetture Fiat. Il tecno austriaco nato a Merano, in Alto Adige, fece sognare milioni di italiani convinti di possedere un vero bolide da corsa con modica spesa. Nella sede torinese, con lo stesso ruolo, lavorava anche Gianfranco Palazzoli, e fu proprio quando Mario fu assunto in Rai come telecronista dei motori che il grande “Pal-Joe” affiancò quale spalla tecnica il buon “Poltroncina”.
Io ero arrivato a Milano da Bolzano, come cronista radiofonico in forza al neonato GR1 di Sergio Zavoli. I motori però erano la mia passione e, dopo un biennio passato a calcare, da inviato speciale, i campi di gara delle moto e del rally, mi assegnarono alla Formula 1. La mia presenza in cabina avrebbe reso troppo affollato il posto di trasmissione, ed ecco perché mi inventai un ruolo di commentatore dai box. Una figura che prima non esisteva, anche perché sembrava quasi impossibile utilizzare un microfono in un ambiente talmente rumoroso. La tecnologia che andava evolvendosi e le varie prove (confortate dal mio background in ingegneria elettrotecnica), fecero in modo che una voce dal cuore del campo di gara, pervaso da migliaia di decibel, potesse unirsi alla telecronaca dalla cabina.
Arriva il week-end della paura: 1°maggio 1994.
Nel venerdì, si fa male Rubens Barrichello. Il sabato muore Roland Ratzenberger, e domenica, dopo una partenza ripetuta, dove una ruota finisce in tribuna ed un meccanico viene investito da Michele Alboreto, se ne va per sempre Ayrton Senna.
La sua Williams, dopo aver impattato con le due gomme destre, di piatto, sul muretto del Tamburello lasciando impresse due funeree scie nere quale firma della morte, rimbalza fermandosi sul prato. Al momento, tiro un sospiro di sollievo: la macchina non si è ribaltata, i danni si intuisce che sono minimi, Ayrton solleva il capo e lo riabbassa.
Io mi tranquillizzo perché ero a conoscenza di un piccolo segreto: esisteva un accordo con i suoi genitori secondo il quale, dopo un eventuale incidente, Ayrton avrebbe alzato ed abbassato tre volte la testa per segnalare che tutto era a posto. Dopo il primo abbassamento, vedo il casco di Ayrton che rimane immobile ed intuisco la tragedia. Corro subito verso la macchina e dopo un’occhiata nell’abitacolo capisco che non c’è più nulla da fare: da non credere. La porta spalancata su un incubo.
Una piccola pozza di sangue mescolata a materia cerebrale si sta rapprendendo sulla tuta all’altezza delle gambe. Beffa del destino, se si pensa che a causare la morte è stato un piccolissimo frammento metallico del braccetto anteriore. Un autentico proiettile, infilatosi di punta nel casco sotto la visiera. Una fatalità unica. Si dirà poi che Senna, trasportato con l’elicottero, è deceduto all’ospedale di Bologna: non è vero.
Se ufficialmente si fosse stabilito che la morte era avvenuta in pista, la gara sarebbe stata interrotta, ed Ecclestone non avrebbe mai accettato di interrompere la gara con conseguente perdita economica. “The show must go on”, lo spettacolo deve andare avanti. (Tuttavia, la legge vigente in Italia in quel tempo, prevedeva che una persona venisse dichiarata deceduta al momento della morte cardiaca. In Ayrton, non vi era più attività cerebrale, ma all’arrivo in ospedale il suo cuore non aveva ancora smesso di battere, n.d.r)
Eccome se è andato avanti. È stata la più lunga telecronaca della mia lunga carriera: sei ore ininterrotte con un cocente dolore nel cuore, con la mente carica di ricordi che sfilavano davanti, con i lunghi sfoghi che Ayrton mi confidava lungo interminabili interviste per le ingiustizie che aveva dovuto sopportare dalla politica della federazione retta da uno sciovinista come Balestre. La marcia indietro rispetto alla decisione del primo momento di ritirarsi dalle corse, nella determinazione per raggiungere l’obbiettivo della conquista del quinto titolo mondiale; finire con le corse e poi, come un missionario laico, dedicarsi nella raccolta di fondi per sollevare dalla povertà i “ninos de rua”, i bambini di strada, per sfamarli prima e dare loro un’istruzione poi. Questo, era Ayrton.
Devo dire che, in un primo momento, avevo pensato di smettere con questo lavoro che mi ha dato tante soddisfazioni per essere entrato dentro i pensieri anche più reconditi di giovani piloti, ma soprattutto di uomini ai quali inevitabilmente ti affezioni. Quando se ne vanno, ed è sempre all’improvviso, se ne va anche una parte di te e soffri tanto. Ti viene da dire” basta”.
Non è successo. Con enorme soddisfazione ho organizzato, vent’anni dopo, sulla pista di Imola, la giornata del suo ricordo: cinquantamila persone giunte da ogni parte del mondo, 36 reti televisive, tutte raccolte davanti alla curva del Tamburello: un Gran Premio della sua memoria. Glielo dovevo.
Sono in pensione da dieci anni, e in questo lasso di tempo mi sono dedicato a fissare con le immagini i ricordi di una carriera lunga una quarantina d’anni. Ho messo insieme tutto il repertorio Rai dell’Istituto Luce e della videoteca Ferrari, in tre cofanetti DVD (dalla durata di circa 50 ore) che raccolgono la storia della Formula 1, del Rally e del Cavallino di Maranello.
Ho rivisto le immagini, ho sentito le voci dei protagonisti e di ogni frame ho ricordato il posto, il contesto, le emozioni, le fatiche le gioie ed i dolori di quei momenti. Una fatica immane nell’arco di un periodo in cui il mondo è cambiato, dove le conquiste tecnologiche riversatesi nel settore radiotelevisivo sono state infinite.
Un esempio per tutti: le immagini e le relative interviste fissate nelle videocassette dovevano essere trasportate materialmente nel più vicino posto di trasmissione solitamente ubicato nella sede della televisione del posto, al centro della città. A Città del Messico, dalla pista al centro televisivo si facevano 280 chilometri, sempre nella cinta daziaria della città, percorrendo strade trafficatissime. Una tappa infinita, solo per andare a trasmettere via ponti il materiale.
Oggi, i satelliti ti consentono di andare in onda o trasmettere registrazioni da qualsiasi parte del mondo ove si svolga l’evento. In mezzo al deserto apri una valigetta e ti colleghi con l’universo.
Tutto più facile da un punto di vista logistico. Ma, dal punto di vista umano ed emozionale si può dire altrettanto? Non lo so. Non credo. Ezio Zermiani dai box, da quei box, non riesce a dare un giudizio sereno. Non ci si trova più.
Questo è quanto, ciao Beatrice.
Confesso che, di fronte alle sue parole, mi sono commossa.
Io, il 1° Maggio del ’94, avevo quattro anni e mezzo. Era normalità pranzare ogni domenica dai nonni e poi accendere la televisione per guardare, tutti insieme, il Gran Premio di turno. Prima della partenza, però, si percepiva nell’aria l’odore dell’inaspettato. C’era meno entusiasmo del solito, era ancora ben presente lo strascico della tragedia che aveva colpito la Formula 1 il pomeriggio precedente. Poi, alle 14.17, l’ennesimo colpo di scena in un week-end disgraziato. Ricordo ancora gli occhi lucidi di mio padre, che tentava di spiegare la morte in pista di un pilota a una bambina di poco più di quattro anni. Da quel giorno, ogni 30 Aprile ed ogni 1° Maggio, come tradizione e come commemorazione, il mio videoregistratore rivive quella dannata Imola. Mentre il mio stereo, fa risuonare la voce di Dalla, il poeta che come nessuno è riuscito a rendere Ayrton immortale anche nella musica.
“…E ho deciso una notte di Maggio, in una terra di sognatori, ho deciso che toccava forse a me. E ho capito che Dio mi aveva dato il potere di far tornare indietro il mondo, rimbalzando nella curva insieme a me. Mi ha detto ‘chiudi gli occhi e riposa’. E io ho chiuso gli occhi…”