È il primo pilota a conquistare l’alloro iridato alla guida di una Ferrari, casa con cui si lega sin dagli inizi della sua carriera agonistica. Si aggiudica i campionati del 1952 e del 1953, vincendo complessivamente ben undici su quindici Gran Premi disputati, dei diciassette in calendario: impressionante.
In Formula 1, l’italiano Alberto Ascari accumula complessivamente 13 vittorie e 17 podi, numeri che, ironia della sorte, avrebbe voluto sempre evitare. Già, perché dietro la maschera dell’uomo tranquillo, perennemente sorridente e disteso, notoriamente solo preoccupato di avere la tendenza ad ingrassare nonostante un’alimentazione accorta, si cela un uomo complesso che ha vissuto la sua esistenza con la convinzione di dover convivere con un destino segnato.
Chi l’ha conosciuto molto da vicino, fino a diventarne grande amico, è stato Luigi Villoresi, per tutti “Gigi”. Milanese come Ascari, gareggiò in Formula 1 con Ferrari, Maserati e Lancia dal 1950 al 1956. I due si conobbero quando Alberto si recò da lui per acquistare un’Alfa Romeo. Tra le amicizie comuni c’era una bella ragazza, Mietta, che colpì subito Ascari: un’attrazione reciproca che poi sfociò in matrimonio. Quando gli è stato chiesto di Ascari, Villoresi ha sempre messo in risalto la passione per l’automobile che aveva il suo amico, passione ereditata dal padre Antonio, la cui scomparsa influì parecchio su Ascari sia come genitore, sia come pilota.
Antonio Ascari, celebre conduttore di vetture da competizione, era perito nel 1925 a seguito di un inspiegabile incidente occorsogli mentre stava dominando il Gran Premio di Francia. Alberto, rimasto orfano di padre a sette anni, maturò in sé il dovere di proseguire e completare, vittoriosamente, il percorso paterno, cancellandone così la morte.
Da genitore, pur amando molto la famiglia e i figli Tonino e Patrizia, non volle mai estrinsecare questo amore, perché non voleva che i suoi cari soffrissero come lui aveva sofferto per la morte del padre. L’amicizia con Villoresi agevolò l’ingresso di Ascari nel mondo delle corse. Gigi l’aiutò nell’acquisto di una Maserati, con cui Alberto debuttò a Tripoli e poi alla Targa Florio. Con l’avvento del conflitto mondiale si interruppero le attività agonistiche. Terminata la guerra, Villoresi parlò con Ferrari del suo amico e il costruttore invitò Ascari a Modena. Ferrari era stato amico e ammiratore di suo padre Antonio. L’ingaggio si definì con poche parole e… pochi soldi.
Oltre che veri amici, Gigi e Alberto diventarono leali avversari. In questa nuova veste, Villoresi ebbe modo di conoscere altri aspetti dell’amico: la sua pignoleria e la sua superstizione. Alberto, per scongiurare quello che riteneva essere un “destino segnato”, si affidava completamente e ossessivamente alla superstizione: i numeri, le date, le gobbe, l’olio e il sale, i gatti neri e quant’altro.
Credeva che, con le opportune “precauzioni”, si potesse vincere, evitando la morte. Mai e poi avrebbe avuto un numero di gara o di stanza d’albergo 13 o 17, mai avrebbe partecipato ad una corsa il giorno 26 (giorno in cui suo padre ebbe il fatale incidente), nè avrebbe posato il cappello sul letto. Avrebbe evitato un gatto nero, avrebbe corso sempre con stessi guanti e caschetto, avrebbe indossato in gara gli stessi indumenti avuti in prova, e avrebbe fatto tanto altro che solo nei suoi pensieri, schematicamente, aveva incardinato.
Con tutto ciò, per Alberto Ascari ogni corsa era una sfida con la morte, ogni vittoria un’affermazione della vita.
Un grande pilota, molto motivato e preparato. Studiava ogni particolare del circuito, curava ogni dettaglio della macchina. E si sentiva protetto da tutte quelle “precauzioni”.
Di lui, Enzo Ferrari diceva che, quando doveva inseguire e superare un avversario, veniva colto non da un senso di inferiorità, bensì da un nervosismo che non gli consentiva di esprimere tutta la sua classe. Una sensazione, quella del Drake, che non combaciava totalmente con le cronache del tempo.
Alberto, aveva la caratteristica di saper gestire la testa della corsa: se partiva davanti era irraggiungibile, fortissimo. Quando, per qualche ragione, si ritrovava nel gruppo, perdeva sicurezza, mordente e precisione di guida.
Nel ‘53 Ascari conquistò il suo secondo titolo, ancora una volta con Ferrari. Al termine della stagione, Alberto e Gigi si recarono a Modena, per rinnovare il contratto di collaborazione con la Casa di Maranello. Diversamente dal solito, furono ricevuti separatamente: Ascari da Ferrari, Villoresi dal direttore sportivo Ugolini. Terminarono l’incontro concludendo il nulla: le porte di Maranello si erano chiuse. Saliti in macchina per andarsene, Alberto mostrò a Gigi un accordo che qualche mese prima aveva autonomamente stipulato con Lancia, per entrambi e per la stagione del 1954. Mancava solo la firma. Così si recarono a Torino e siglarono il contratto, dove si evidenziavano cifre molto importanti.
Ascari temeva, o attendeva, l’arrivo del trentennale della morte di suo padre, come una scadenza. Nel 1955 iniziò a ripetere più volte: “Mi quest’an mori”. Arrivò quel giorno. Il 26 maggio, Gigi e Alberto si recano a Monza, dove Castellotti prova una Ferrari sport. Ascari d’un tratto decide di scendere dalle tribune, va ai box e, dopo un colloquio con i responsabili della Ferrari, incredibilmente si fa prestare casco e guanti, come mai avrebbe fatto, sale sulla macchina di Castellotti e parte via. Senza fare ritorno.
Molti anni dopo, Villoresi apprenderà che quel contratto con Lancia prevedeva cifre favolose solo per lui, ma non per il suo amico Alberto.